Pioviggina. Succede sempre così, non riesco.
A spiegare perché, quando vedo il tuo viso poggiato di profilo sul mio braccio, penso che sia qualcosa di diverso dal fottìo-di-parentame-un-po’-matto-inventato-da-me, qualcosa di ben più stretto, intimo, fuori contesto, assoluto. Ma, per quanti sforzi potrò fare, non ci crederai mai. E io ci provo lo stesso.
E spiegare perché non riesco a reggere la violenza di un tornado, e invece affronto le tue morse fino allo stremo. O perché mi sento uno stupido quando cerco di spiegarti cose quando so che le parole sono inutili, veniali.
E perché, in fondo, vorrei che continuassi a dimenticarti di quel cerchietto e quell’anello, e che restassero per sempre lì, senza che nessuno li muova di un centimetro, per vederli ad ogni piccola morte. E riascolto quella canzone il cui balletto scemo ora posso considerare, a suo modo, un piccolo presagio.
Mi chiedo se abbia davvero ragione quel tachimetro farlocco che mettono per strada e in realtà vada a 74 Km/h anziché ad 80 Km/h. Ma questo, a meno che non vogliate ricavarne una morale sulla plurivalenza dela verità o sui rischi connessi alla guida in sonnolenza, non credo che possa riguardar qualcosa.
Le parole fluttuano insieme alla condensa, manca l’aria, e ogni tanto respiro parole senza senso e ogni tanto un po’ d’aria. Ti guardo rincantucciata nel cappotto, fa freddo. Freddo. E torno con pensieri che si accumulano, si scontrano, alcuni vogliono distrarmi dall’angoscia emergente ma poi diventano loro stessi angoscianti e li rivedo negli occhi vitrei dello stesso gatto (sì, è ancora lì, dietro quella curva). Insomma, un bel casino.
Poi chiamo Morfeo, che in realtà è una mamma affettuosa che ti rimbocca le coperte, e accarezzandoti i capelli resta lì tutta la notte a far scivolar via il velo grigio. E mi sento protetto nel suo grembo d’incoscienza.
Non riesco. E succede sempre così, pioviggina.
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