Bivio #2.

Quote

Non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui mio padre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre piú da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, anzi d’un mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi.

Ero rimasto cosí, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m’erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza piú di me. M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente piú di loro; ma andare, non sapevo dove andare.

(Luigi Pirandello, Uno, Nessuno e Centomila, 1926)

Bivio #1.

Quote

John Matlock, Lifes Crossroads

Two roads diverged in a yellow wood,
And sorry I could not travel both
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
To where it bent in the undergrowth;

Then took the other, as just as fair,
And having perhaps the better claim
Because it was grassy and wanted wear;
Though as for that, the passing there
Had worn them really about the same,

And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black.
Oh, I marked the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way
I doubted if I should ever come back.

I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and I,
I took the one less traveled by,
And that has made all the difference.

(Robert Frost, The Road Not Taken, 1916)

Desuefazione.

Qualche anno fa partecipai ad un progetto della Società Dante Alighieri, chiamato Adotta una Parola. Quest’iniziativa non esiste già più, in realtà, dal momento che è stata integrata in una specie di social network chiamato Beatrice (giuro).

L’idea era quella di prendere una parola, idealmente una caduta in disuso, e darne nuova vita nella lingua corrente.

La parola di cui mi innamorai era: desuefazione.

Il processo di desuefazione è molto più complicato del suo contrario. L’assuefazione è una sensazione confortevole, che si cerca di mantenere costante ed ininterrotta, è Rinaldo che porge lo specchio ad Armida, è la Circe che Ulisse non vuole lasciare. La desuefazione è l’antitesi hegeliana, è il terremoto che mina lo status quo, è il cambiamento che non si desidera bensì si subisce, anche quando è auto-inflitto.

La desuefazione è un processo di resistenza a se stessi, di resistenza alla resistenza al cambiamento. È la sostanza stupefacente che produce di nuovo il suo effetto; la routine o il gesto abitudinario che smette di essere rassicurante; lo stimolo esterno che provoca di nuovo una reazione fisica o psicologica.

Sono i muscoli intorpiditi che si riprendono al risveglio.
Le pupille che si ritirano alla vista di un nuovo, inedito sole.
I polmoni che si riempiono di aria fresca.

Ogni 14 giorni scompare una lingua.

La comunicazione unilaterale ha uno svantaggio di fondo: può o può non essere recepita. In assenza di feedback, il mittente non solo non saprà se il messaggio è stato ricevuto ed interpretato correttamente, ma anche se il messaggio è stato recepito in primo luogo.

È scomparso l’ennesimo dialetto. Ci sono tracce sparse, ma la ricostruzione filologica è ardua. I tratti di questa lingua sembrano estremamente variabili, ed è nel complesso abbastanza difficile spiegarsi i motivi della sua estinzione.

I parlanti erano solo due.
Uno ha smesso di parlare.
L’altro ha rinunciato.

With your feet on the ground.

È nel momento in cui cominci a dare qualcosa per scontato che diventi più fragile. Succede ogni volta. A cosa serve ergere mura altissime, se poi il vero pericolo è ancora all’interno? Nel mondo di Morfeo, quello in cui tutti i tuoi “non fa niente”, “non fa male”, “va bene così”, valgono una cicca, basta un tavolo, un sorriso, una doccia, un viaggio.

Ho scattato una foto alla farfalla, nel momento esatto in cui era appena uscita dal baco. Sbatte le ali, si guarda intorno. Click. Questo è l’ultimo, dolce momento che voglio ricordare. Un ultimo sguardo, poi vola via.

How can you swallow so much sleep?

If you want to go fast, go alone,
If you want to go far, go together.

Ho costruito un castello di carte forte come non mai. Nessun vento è riuscito a spostarlo, neanche di un millimetro. La neve non è riuscita a congelarlo, la pioggia è scivolata via senza danno apparente. Ad ogni preziosa occasione ho aggiunto un piano, ho rinforzato gli argini, e ho rimesso a posto qualche carta che rischiava di scivolare via.

Quando vuoi costruire un castello di carte, la chiave è decidere quante carte vuoi mettere alla base. Più ne metti, più piani avrai bisogno di costruire per arrivare in cima. Questo castello di carte, amico mio, era il più grande che avessi costruito finora.

Non mi ero mai azzardato ad un’impresa del genere, ed il perché è forse così ovvio da sembrare banale: non avevo trovato un tavolo abbastanza grande e abbastanza solido da potermelo permettere.

Ma questa volta ce l’avevo.
Un tavolo bellissimo, di mogano, lucente.
Con rifiniture così belle e così complesse da perdere ore soltanto a seguirne l’andamento.

Ho fatto, tuttavia, un errore così stupido.
Non ho preso in considerazione i tarli.
Quei cazzo di tarli che ti consumano dentro, e ti lasciano vuoto e fragile.

E quindi è successo.
Ero a metà strada,
pregustando il prossimo piano,
con calma,
ed eccitazione,
allo stesso temp–
Crack.

Sono rimasti
trucioli,
pochi piani
senza fondamenta,
un re di cuori,
e la regina è volata via,
o forse,
forse,
è solo nascosta tra le macerie.

 

Una bottiglia di Lysoform.

In greco “ritorno” si dice nòstos. Álgos significa “sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgia, nostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli spagnolo dicono añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall’impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra. Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si dice homesickness. O in tedesco Heimweh. In olandese: heimwee. Ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione. Una delle più antiche lingue europee, l’islandese, distingue i due termini: söknudur: “nostalgia” in senso lato; e heimfra: “rimpianto della propria terra”. Per questa nozione i cechi, accanto alla parola “nostalgia” presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro; la più commovente frase d’amore ceca: stýská se mi po tobě: “ho nostalgia di te”; “non posso sopportare il dolore della tua assenza”. In spagnolo, añoranza viene dal verbo añorar (“provare nostalgia”), che viene dal catalano enyorar, a sua volta derivato dal latino ignorare. Alla luce di questa etimologia, la nostalgia appare come la sofferenza dell’ignoranza. Tu sei lontano, e io non so che ne è di te. Il mio paese è lontano e io non so cosa succede laggiù.

(Milan Kundera, L’Ignoranza, 2001)

Ho passato gli ultimi anni a cercare di capire perché stia meglio altrove che in Italia. Perché, ogni volta che torno, finisca presto per aver voglia di tornare alla mia nuova vita, lì. Non riesco a capire cosa sia l’insieme di fattori che mi provocano inquietudine appena poso piede in terra natìa. E cosa mi manca rispetto alle persone che, invece, sono volute restare.

Perché la verità è che, forse, avrei bisogno di cambiare io, e non gli italiani. Voglio dire, mi sembra un po’ arrogante il fatto di dire che un’intera Italia va cambiata in certe cose, quando magari ci sono solo pochi altri a concordare.

Ma il fatto è che ci sono alcune cose che davvero non capisco, specialmente da quando so che un’alternativa è possibile. Per esempio: perché la TV è così di bassa qualità? Sì, ok, Abberlustoni, Viva Zapatero, bla bla, ma a parte questo: perché i consumatori sono passivi? C’è un articolo molto interessante a questo proposito, dove si cerca una spiegazione:

Gli italiani non capiscono. Ecco la vera ideologia della nostra classe dirigente, l’unica nella quale tutti credano, che accomuna cioè non soltanto la stragrande maggioranza dei comunicatori, dei decisori di linguaggio, ma chiunque arrivi a occupare un posto di comando.
È lì che nasce la grande impostura: a chiedere un così brutto spettacolo sarebbe il suo stesso pubblico, il quale non accetterebbe nient’altro e anzi, non vedete?, approva consumando. Sarebbero cioè gli italiani stessi, i mandanti.

Oppure: da quando Internet è diventato uno strumento accessibile alle masse, stiamo finalmente vedendo in pratica cosa volesse dire Gervasio in Capitani D’Aprile quando, a commento del futuro post-rivoluzione, diceva: «il popolo non sono le persone, sono le masse. E le masse servono solo ad una cosa: essere manipolate». Mi viene un po’ di tristezza quando i grillini dicono che intendono seguire la volontà popolare, per esempio. L’opinione pubblica è fatta da dei “molti” che seguono inebetiti l’idea di “alcuni”, idea a sua volta manipolata strategicamente da dei “pochissimi”. In pratica i grillini promettono di assecondare la manipolazione mediatica altrui?

Più in generale, ultimamente arrivo addirittura a domandarmi se gli Italiani, almeno in questi ultimi anni, meritino ancora strumenti democratici come il suffragio universale. Qualcuno suggeriva che forse sarebbe il caso di limitare l’accesso al voto, foss’anche tramite uno strumento banale come un test psico-attidudinale. Un’opzione estrema che purtroppo mi alletta terribilmente quando leggo certi commenti. Ma sospetto che ci sia, in realtà, un problema ancora più fondamentale, un’inghippo nel sistema educativo che non permette alle persone di andare al di là del bipolarismo da stadio che ti porta inevitabilmente a tifare ciecamente destra o sinistra, fascio o mangiabambini. In medio stat virtus, ma è un principio che difficilmente riusciamo sempre ad accettare.

[Se sei arrivato a questo punto e stai pensando: “Allora dovrei votare centro? Tipo, Casini?” Fermati. Lascia perdere questo articolo, ci sei capitato per sbaglio. Fai clic qui.]

Senza contare altri problemi culturali, come questo razzismo all’Italiana che è esploso dopo l’arrivo della Kyenge come Ministro. Ommioddio, ‘na negra. Il papa nero. È finita. I razzisti “soft”, che insinuano la negrità della Kyenge pur mettendo le mani avanti con espressioni standard tipo “non sono razzista ma”, “congolese ma pur sempre Italiana”, “primo ministro di colore”, abilitano i razzisti più hardcore, che approfittano di questo momento per forzare un dibattito più generale sulla xenofobia e riportare in voga tutti gli strascichi fascio-coloniali che avevamo faticosamente lasciato sopire nell’ultimo secolo.

[A proposito di strascichi, il sistema classista gentiliano è veramente ormai morto?]

Un altro punto dolente: perché gli Italiani sembrano così attaccati al passato? I film più belli sono quelli vecchi, le canzoni indimenticabili sono quelle degli anni ’60-’90, i gruppi di nostalgici della propria infanzia (“Sei nato negli anni ’90 se…”) fanno incetta di lacrimucce su Facebook e YouTube, diventare grandi fa schifo… Magari è anche vero che la produzione mainstream fosse più allettante ai vecchi tempi, ma d’altra parte forse è anche vero che al presente non si concede una vera chance. In sostanza, l’Italia è un paese di vecchi dentro, nostalgici di un passato che dovrebbero sì conoscere ma non certo idolatrare. Probabilmente mi si potrebbe rispondere che gli Italiani non guardano al futuro per incertezza. Certo, ma se fosse anche mancanza di coraggio?

Che poi, questo futuro fa paura da quale punto di vista? Il proprio, di certo, non quello della nazione. Perché quello che frega le masse è che le masse si ritengono una congregazione di individui, con le loro specificità; cosa che sì, vale, ma per pochi e solo da certi punti di vista. Le azioni degli individui, su larga scala, seguono trend che in molti casi sono prevedibili, e manipolabili. Ognuno ritiene di aver preso una decisione autonoma, quando in realtà in molti casi è una scelta condivisa con altre migliaia di cui non ti renderai mai conto.

Allora la mia impressione è che, quando gli Italiani pensano al futuro, facciano proprio questo, ossia non pensare al futuro della nazione ma piuttosto al proprio. Al proprio posto di lavoro, al proprio tornaconto, alla propria pensione. Difficilmente si bada a questioni altrui se non si è coinvolti direttamente e nel breve termine. Voglio dire, è normale. Difficilmente si riesce a vedere un effetto indiretto o a lungo termine, come potrebbe essere il sacrificarsi ora per il bene delle prossime generazioni. Più in generale, difficilmente si riesce proprio ad immaginare la possibilità di avere una reale influenza nella gestione della cosa pubblica, perché il problema è sempre dei politicanti, e altrettanto difficilmente si immagina che le proprie azioni possano impattare generazioni successive, saranno altri a pensarci; meglio, piuttosto, pensare agli affari propri, attuali.

Quando al commerciante non chiedi lo scontrino, pensi “massì, tanto che differenza fa uno scontrino in meno”. Quando butti la cartaccia a terra, o non fai la differenziata, pensi “massì, tanto che differenza fa un foglietto di carta in meno”. Quando voti Berlusconi anche se in realtà non vuoi, ma il mafioso o il politicante di turno ti ha promesso un posto di lavoro, ché ce n’è sempre bisogno, o un favorino con quell’abuso edilizio che non ti vogliono condonare, pensi “massì, tanto che differenza fa un voto in più”. Quando evadi quel pochettino di tasse, pensi “massì, tanto che differenza fa un centinaio di euro”. E quando ti dicono che nel 2013 ci sono stati 5mila evasori totali, per un danno di 17 miliardi di euro nelle casse dello Stato, pensi “massì, tanto questi sono i soliti ricconi, mica io faccio la differenza”, seguito da “tanto poi quei miliardi se li sputtanano i politici spreconi come al solito, quindi è pure meglio così”.

E quindi, dicevo, non riesco proprio a capire perché non veda l’ora di tornare in quell’altrove, lontano da qui. Forse, molto semplicemente, è il fatto di essere in un luogo che non conosco altrettanto bene, un luogo dove posso permettermi di essere in una sorta di bolla eremitica dove nulla importa, nulla distrae, nulla influisce. Il che, però, è vero solo in parte.

Pareto.

Dovremmo rivedere quel detto secondo il quale bisogna dare il 60% e aspettarsi il 40%. Voglio dire, è una cazzata. Se consideriamo che il contributo di una relazione è, in realtà, inquantificabile, e quindi decisamente soggettivo, bisognerebbe piuttosto usare come obiettivo una sproporzione tipo 70/30, se non addirittura peggiore.

Partiamo con un rapporto che è quasi 5/95, e che poi tende al 50/50 quando diventiamo un po’ più grandicelli, che uno magari pensa 20 anni, ma in realtà a volte anche 40. Dopodiché dipende, alcuni tendono ad avere tendenze quasi genitoriali tipo 80/20, altri un più moderato 60/40, altri un deluso e quasi misantropo 40/60 e giù di lì.

Eppoi ci sono alcuni pazzi che danno 95/5, dove quell’5% è quel quasi nulla che ti fa dire “ma io lo faccio per il piacere di farlo”. Oh, amore incondizionato, oh quanto sai esser crudele quando sei mal corrisposto!, eccetera.

Ma la verità è che uno sceglie le proprie amicizie in base a questi rapporti. In base al proprio tornaconto affettivo. Perché nessuno vuole investire il proprio capitale di tempo, o attenzione, o felicità, a fondo perduto.

E, in verità, neanch’io.

Chi semina vento, raccoglie vento. Per la tempesta c’è ancora tempo.

La neve vince sulle strade di periferia.
Nessun pneumatico, nessun’orma.
Il Sole è morto. Viva il Sole.

Se festeggiassimo tutti il Sol Invictus saremmo semplicemente persone coi piedi per Terra. Faremmo canti e balli per festeggiare l’idea che è vero. Che quando arrivi in fondo al pozzo, poi risali. Che laruotaggira. Che peggio di così non può andare. Tutto vero, tutto verificato, tutto confermato. Davveroveramente eh.

E allora ti darei un bacio lunghissimo e ti offrirei l’anno nuovo in un bicchiere di vino caldo fumante sul palmo della mano fumante. Ti prometterei la neve e il freddo, ma poi anche un futuro di schiavitù, una resistenza passiva fatta di procrastinazione e pigrizia, un’alternativa ancora troppo lontana, un affascinante progetto globale, discussioni strategicamente infinite e diabolicamente inutili.

E poi un altro bicchiere di vino, per non pensarci.

Vcítění.

Sei come il concerto di un gruppo emergente, in un posto meno squallido del solito pub di periferia, quando senti l’ansia crescere, e vuoi che tutto sia perfetto, ma tutto sembra andare malissimo, e cerchi di capire quousque tandem abutere patientia earum prima che ti mandino a fare in culo. E poi, finisce la canzone, e gli applausi scroscianti spazzano via qualsiasi dubbio. Secondo te fai ancora cagare, sia chiaro, però forse alla fine non più di tanto.