Gelo. Disgelo.

Dov’è l’amore che spacca le montagne? Dov’è l’amore che spezza le catene, ispira, distrugge e fortifica, separa e unisce, dov’è l’amore che fa morire un po’ dentro e un po’ risveglia il cuore? Dov’è l’amore che arriva con un frastuono immenso, brucia e spazza via, per poi svanire senz’avviso?

Città deserta, cielo torbido, sole silenzioso. Assorbo baci, abbracci, parole, sguardi, sorrisi e bronci. Lo spirito ha fame di nuovi ricordi e nuove antitesi.

E l’alba?

Dov’è l’alba?

Milkman.

Ricomincio a correre, col cuore pesante, cuore di pietra, cuore d’acciaio. Locomotiva a carbone, si nutre di fallimenti, amori perduti e amori lontani. Mi siedo lungo il fiume. I raggi del sole bruciano le epifanie, il fiume le porta via, la pioggia rinfranca. Tutto quello che ho perso è niente, e quindi sorrido molto, sorrido sempre, e quelli che si lamentano di tutto mi stanno assai sul cazzo.

EB.

Ho trovato un bagaglio. C’erano fiori di lillà, una copia minuscola del Corano, una macchina fotografica da quattro soldi, e un’immensa mestizia, che entra nelle narici, prende a calci le sinapsi e le fa lavorare a perdifiato. Manca il fiato. Brucia il phrén.

A volte,
ma solo a volte,
vorrei essere solo presente.

Harmonie du soir.

Non c’è tempo non c’è tempo di fermarti a guardare indietro e non c’è tempo di guardare avanti e il momento al presente è soltanto il presente Non c’è tempo non c’è davvero più il tempo di pensare ai tuoi successi e i tuoi fallimenti e alla punteggiatura e alla fine del mondo e al sesso e alle birre e a quello stronzissimo senso di impotenza che macera le viscere in sottofondo come un rumore rosa che non vuoi che faccia più male o almeno non faccia male di più Non c’è tempo da perdere bisogna aspettare aspettare e aspettare qualcosa che valga il senso di tutto questo aspettare e seminare e coltivare e soprattutto coltivare l’arte del perdere tempo quando tempo non ce n’è Perdere Prendere Perdere Prendere Sono la cosa più bella che abbia mai perso Sono il tempo che scivola via infame e torna come un fiore di lillà un giorno in un altra forma e un altro sapore.

Copri il rumore rosa
cercando qualcosa
che faccia più rumore.

Una bottiglia di Lysoform.

In greco “ritorno” si dice nòstos. Álgos significa “sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgia, nostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli spagnolo dicono añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall’impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra. Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si dice homesickness. O in tedesco Heimweh. In olandese: heimwee. Ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione. Una delle più antiche lingue europee, l’islandese, distingue i due termini: söknudur: “nostalgia” in senso lato; e heimfra: “rimpianto della propria terra”. Per questa nozione i cechi, accanto alla parola “nostalgia” presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro; la più commovente frase d’amore ceca: stýská se mi po tobě: “ho nostalgia di te”; “non posso sopportare il dolore della tua assenza”. In spagnolo, añoranza viene dal verbo añorar (“provare nostalgia”), che viene dal catalano enyorar, a sua volta derivato dal latino ignorare. Alla luce di questa etimologia, la nostalgia appare come la sofferenza dell’ignoranza. Tu sei lontano, e io non so che ne è di te. Il mio paese è lontano e io non so cosa succede laggiù.

(Milan Kundera, L’Ignoranza, 2001)

Ho passato gli ultimi anni a cercare di capire perché stia meglio altrove che in Italia. Perché, ogni volta che torno, finisca presto per aver voglia di tornare alla mia nuova vita, lì. Non riesco a capire cosa sia l’insieme di fattori che mi provocano inquietudine appena poso piede in terra natìa. E cosa mi manca rispetto alle persone che, invece, sono volute restare.

Perché la verità è che, forse, avrei bisogno di cambiare io, e non gli italiani. Voglio dire, mi sembra un po’ arrogante il fatto di dire che un’intera Italia va cambiata in certe cose, quando magari ci sono solo pochi altri a concordare.

Ma il fatto è che ci sono alcune cose che davvero non capisco, specialmente da quando so che un’alternativa è possibile. Per esempio: perché la TV è così di bassa qualità? Sì, ok, Abberlustoni, Viva Zapatero, bla bla, ma a parte questo: perché i consumatori sono passivi? C’è un articolo molto interessante a questo proposito, dove si cerca una spiegazione:

Gli italiani non capiscono. Ecco la vera ideologia della nostra classe dirigente, l’unica nella quale tutti credano, che accomuna cioè non soltanto la stragrande maggioranza dei comunicatori, dei decisori di linguaggio, ma chiunque arrivi a occupare un posto di comando.
È lì che nasce la grande impostura: a chiedere un così brutto spettacolo sarebbe il suo stesso pubblico, il quale non accetterebbe nient’altro e anzi, non vedete?, approva consumando. Sarebbero cioè gli italiani stessi, i mandanti.

Oppure: da quando Internet è diventato uno strumento accessibile alle masse, stiamo finalmente vedendo in pratica cosa volesse dire Gervasio in Capitani D’Aprile quando, a commento del futuro post-rivoluzione, diceva: «il popolo non sono le persone, sono le masse. E le masse servono solo ad una cosa: essere manipolate». Mi viene un po’ di tristezza quando i grillini dicono che intendono seguire la volontà popolare, per esempio. L’opinione pubblica è fatta da dei “molti” che seguono inebetiti l’idea di “alcuni”, idea a sua volta manipolata strategicamente da dei “pochissimi”. In pratica i grillini promettono di assecondare la manipolazione mediatica altrui?

Più in generale, ultimamente arrivo addirittura a domandarmi se gli Italiani, almeno in questi ultimi anni, meritino ancora strumenti democratici come il suffragio universale. Qualcuno suggeriva che forse sarebbe il caso di limitare l’accesso al voto, foss’anche tramite uno strumento banale come un test psico-attidudinale. Un’opzione estrema che purtroppo mi alletta terribilmente quando leggo certi commenti. Ma sospetto che ci sia, in realtà, un problema ancora più fondamentale, un’inghippo nel sistema educativo che non permette alle persone di andare al di là del bipolarismo da stadio che ti porta inevitabilmente a tifare ciecamente destra o sinistra, fascio o mangiabambini. In medio stat virtus, ma è un principio che difficilmente riusciamo sempre ad accettare.

[Se sei arrivato a questo punto e stai pensando: “Allora dovrei votare centro? Tipo, Casini?” Fermati. Lascia perdere questo articolo, ci sei capitato per sbaglio. Fai clic qui.]

Senza contare altri problemi culturali, come questo razzismo all’Italiana che è esploso dopo l’arrivo della Kyenge come Ministro. Ommioddio, ‘na negra. Il papa nero. È finita. I razzisti “soft”, che insinuano la negrità della Kyenge pur mettendo le mani avanti con espressioni standard tipo “non sono razzista ma”, “congolese ma pur sempre Italiana”, “primo ministro di colore”, abilitano i razzisti più hardcore, che approfittano di questo momento per forzare un dibattito più generale sulla xenofobia e riportare in voga tutti gli strascichi fascio-coloniali che avevamo faticosamente lasciato sopire nell’ultimo secolo.

[A proposito di strascichi, il sistema classista gentiliano è veramente ormai morto?]

Un altro punto dolente: perché gli Italiani sembrano così attaccati al passato? I film più belli sono quelli vecchi, le canzoni indimenticabili sono quelle degli anni ’60-’90, i gruppi di nostalgici della propria infanzia (“Sei nato negli anni ’90 se…”) fanno incetta di lacrimucce su Facebook e YouTube, diventare grandi fa schifo… Magari è anche vero che la produzione mainstream fosse più allettante ai vecchi tempi, ma d’altra parte forse è anche vero che al presente non si concede una vera chance. In sostanza, l’Italia è un paese di vecchi dentro, nostalgici di un passato che dovrebbero sì conoscere ma non certo idolatrare. Probabilmente mi si potrebbe rispondere che gli Italiani non guardano al futuro per incertezza. Certo, ma se fosse anche mancanza di coraggio?

Che poi, questo futuro fa paura da quale punto di vista? Il proprio, di certo, non quello della nazione. Perché quello che frega le masse è che le masse si ritengono una congregazione di individui, con le loro specificità; cosa che sì, vale, ma per pochi e solo da certi punti di vista. Le azioni degli individui, su larga scala, seguono trend che in molti casi sono prevedibili, e manipolabili. Ognuno ritiene di aver preso una decisione autonoma, quando in realtà in molti casi è una scelta condivisa con altre migliaia di cui non ti renderai mai conto.

Allora la mia impressione è che, quando gli Italiani pensano al futuro, facciano proprio questo, ossia non pensare al futuro della nazione ma piuttosto al proprio. Al proprio posto di lavoro, al proprio tornaconto, alla propria pensione. Difficilmente si bada a questioni altrui se non si è coinvolti direttamente e nel breve termine. Voglio dire, è normale. Difficilmente si riesce a vedere un effetto indiretto o a lungo termine, come potrebbe essere il sacrificarsi ora per il bene delle prossime generazioni. Più in generale, difficilmente si riesce proprio ad immaginare la possibilità di avere una reale influenza nella gestione della cosa pubblica, perché il problema è sempre dei politicanti, e altrettanto difficilmente si immagina che le proprie azioni possano impattare generazioni successive, saranno altri a pensarci; meglio, piuttosto, pensare agli affari propri, attuali.

Quando al commerciante non chiedi lo scontrino, pensi “massì, tanto che differenza fa uno scontrino in meno”. Quando butti la cartaccia a terra, o non fai la differenziata, pensi “massì, tanto che differenza fa un foglietto di carta in meno”. Quando voti Berlusconi anche se in realtà non vuoi, ma il mafioso o il politicante di turno ti ha promesso un posto di lavoro, ché ce n’è sempre bisogno, o un favorino con quell’abuso edilizio che non ti vogliono condonare, pensi “massì, tanto che differenza fa un voto in più”. Quando evadi quel pochettino di tasse, pensi “massì, tanto che differenza fa un centinaio di euro”. E quando ti dicono che nel 2013 ci sono stati 5mila evasori totali, per un danno di 17 miliardi di euro nelle casse dello Stato, pensi “massì, tanto questi sono i soliti ricconi, mica io faccio la differenza”, seguito da “tanto poi quei miliardi se li sputtanano i politici spreconi come al solito, quindi è pure meglio così”.

E quindi, dicevo, non riesco proprio a capire perché non veda l’ora di tornare in quell’altrove, lontano da qui. Forse, molto semplicemente, è il fatto di essere in un luogo che non conosco altrettanto bene, un luogo dove posso permettermi di essere in una sorta di bolla eremitica dove nulla importa, nulla distrae, nulla influisce. Il che, però, è vero solo in parte.

4×4.

Voliamo attraverso la città (attraverso le città) con indifferenza. Un infinitesimo atomo freddo che repelle e tende verso altri atomi gelidi. Le reazioni, le interazioni, le conversazioni, sono tutte superficiali; ma proprio su questa superficie scivolano senza conseguenze.

Sono seduto sulla panchina, pe’ cazzi mia.

– Kamo, maš cigarko?
– Jo.
– Český rozumíš, ne?
– Jo, ale trošku. Anglický?
– Ah… ne… Thank you.
– You’re welcome.

Sono seduto sulla panchina, pe’ cazzi mia. Il mio nuovo amico fuma il trofeo vinto grazie a questa soddisfacente interazione sociale, siede ad un metro, osserva i tecnici distruggere il palco a poco a poco (quello stesso palco che un’ora prima aveva ospitato un gruppo di punk moderati, accompagnati da una piccola claque di saltatori moderati), butta la cicca, si alza e va via.

Sono seduto sulla panchina, pe’ cazzi mia.
E, per ora, va ancora bene così.

Quello che.

Sonno. Veglia. Sonno. Veglia. Caffè. Sigaretta. Caffè. Veglia. Sonno. Veglia. Musica. Birra. Veglia. Sonno. Veglia. Osservo la vita brulicare da un tavolino. Un po’ nascosto. Un po’ curioso. Un po’ divertito. Un altro sorso di caffè. Amaro. Corretto. Passa. Non passa. Caffè. Veglia. Sonno. Cicchetto. Musica. Veglia. Sonno.

Ti odio perché mi ricordi costantemente del mio fallimento.

Se mangi il veleno, non ingoiare anche il piatto.

Ci siamo incontrati sotto un salice piangente. Maestoso. Meraviglioso. Ci siamo incontrati dove hai voluto tu. Quando hai voluto tu. Come hai voluto tu. Ma non c’ero io. Io ero già andato via. Lontano. Morto. C’era il riflesso di quello che ero, a discutere animatamente col riflesso di quello che sarei stato. E quando Vera, finalmente, tornerà a casa, e scomoderà Virne dalla poltrona, una brezza leggera, dolcemente, li porterà via.

Con me porterò via anche l’epifania, poi lo sconcerto, e infine l’ammirazione.
E un po’ di nostalgia.
Che imparerò ad uccidere.
Come allora, ancora.

Della natura sistemica, dinamica, deterministica, e intrinsecamente auto-distruttiva.

Qualcuno mi aveva fatto lo sgambetto. È successo per caso, una di quelle storie in cui la colpa è di tutto e di nulla. E allora mi ero rialzato. E avevo ricominciato a correre, come un treno, di nuovo. Volevo andare lontano. E così ho fatto, per un bel po’. Ostinatamente, avevo ignorato la ferita al ginocchio, il dolore leggero che è più un fastidio, una distrazione. Non avevo considerato la parte più scivolosa del percorso, più in là. E allora ecco, sono caduto. Di nuovo. Rialzarsi era più difficile. Era una scena un po’ da manuale, diciamo: avevo messo una mano per rialzarmi, ma non riuscivo a mantenere la presa, e sono scivolato di nuovo. Comunque alla fine ce l’ho fatta, eh. Pian piano. Alla ferita al ginocchio se n’è aggiunta una al gomito.

Alla fine, come sempre succede, a furia di andare lontano, ho fatto il giro. Sono tornato al punto di partenza. Qui, ora, tutto è così uguale, e tutto è così diverso.

Costruiranno un palazzo altissimo. Sfiderà le nuvole, sfiderà Iddio. Sono lì a guardarli mentre, a poco a poco, tirano via ogni pezzo di me. Ero il cane che morì sotto quell’ulivo. Ero l’ulivo stesso. Per decenni ho resistito al vento, alla grandine, persino alla neve. Ma non resisto ad una ruspa che mi sradica in un batter d’occhio. Ero l’alba che non vedrò più sorgere su un orizzonte che non vedrò più. Ero la scatola dei ricordi, che prima mi teneva vivo, ora mi resta indifferente, e domani mi sarà già una palla al piede. Ero la mia terra natìa, che è come una di quelle ragazze tanto belle quanto stronze. O tanto belle quanto stupide. O tanto belle quanto… vattelapesca. Il fatto è, non c’è proprio verso di trovarne una bella e brava. Se sei fortunato, e cerchi, e cerchi ancora, una alla fine la trovi. Altrove. Pronta ad essere così perfetta per te da essere miserabilmente ignorata.

Devo ricominciare a correre.

Chi semina vento, raccoglie vento. Per la tempesta c’è ancora tempo.

La neve vince sulle strade di periferia.
Nessun pneumatico, nessun’orma.
Il Sole è morto. Viva il Sole.

Se festeggiassimo tutti il Sol Invictus saremmo semplicemente persone coi piedi per Terra. Faremmo canti e balli per festeggiare l’idea che è vero. Che quando arrivi in fondo al pozzo, poi risali. Che laruotaggira. Che peggio di così non può andare. Tutto vero, tutto verificato, tutto confermato. Davveroveramente eh.

E allora ti darei un bacio lunghissimo e ti offrirei l’anno nuovo in un bicchiere di vino caldo fumante sul palmo della mano fumante. Ti prometterei la neve e il freddo, ma poi anche un futuro di schiavitù, una resistenza passiva fatta di procrastinazione e pigrizia, un’alternativa ancora troppo lontana, un affascinante progetto globale, discussioni strategicamente infinite e diabolicamente inutili.

E poi un altro bicchiere di vino, per non pensarci.