C’era un tempo in cui le forbici tagliavano di netto i cavi sottili. Succede infatti che, mentre un’estremità rimane qui, le altre cominciano a tirare, perché è arrivato per loro il momento di allontanarsi. E allora in questa situazione è meglio lasciare che si smembri fra atroci sofferenze o è meglio decapitare e -zac!- pace?
Mentre disquisivo su queste facezie presi una birra dalla cassa, e la stappai usando per leva una foto indurita dal tempo. Poi vidi un letto matrimoniale sfatto. Odorava di funk. Fisico, disinteressato, forte, apparentemente volgare. Volevo adagiarmi lì sopra, ma non riuscivo più. Allora presi il libro che c’era sul comodino, e cominciai a declamare ad alta voce un brano. Si parlava di Dostoevskij, di probabilità e cose del genere. Watanabe era lì, davanti a me, e mi guardava interessato. Io interessato non lo ero più. Ma l’idea che fosse possibile per lui riuscire a leggere in queste parole il barlume di una risposta alle sue domande… beh, mi piaceva.
Allora presi la macchina fotografica. Si tratta di uno strumento potentissimo contro Medusa. Si possono fermare i suoi percorsi in un attimo, nonostante gli elfi si divertano a lanciare pezzi di bruschette nell’obiettivo; perché tanto alla fine basta un tortino ben fatto (come sappiamo Noi) e/o un cornetto, e tutti diventano più buoni. Provare per credere.
Il punto, in tutto questo, è che per la prima volta mi sono reso conto che ci sono dei cavi così elastici, così lunghi e resistenti, che tagliarli sarebbe un’ingiustizia.
E allora volevo prendere nota di questo.
Così la prossima volta che mi capita passo prima da qui e ci penso un po’.
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