Sono in stand-by.
Pertanto mi è tutto sostanzialmente indifferente.
Altrimenti, al contrario, sono intrinsecamente insofferente.
Provo a sentire una profonda contrizione, ma non riesco. E il fatto è che questo problema diventa una scatola, chiusa e sormontata da un’altra scatola, a sua volta chiusa e sormontata da un’altra scatola ancora più prominente. Pur non essendo importante, l’ultima scatola è talmente tangibile che mi riesce più facile voler indugiare sul sollevarla o meno per vedere cosa c’è sotto. Potrei aspettare una quarantina d’ore ad esempio, il che sarebbe l’ideale, o potrei sollevarla e sperare che l’antimateria non mi corroda ancora un po’.
Vedo frecce infuocate scagliarsi al cielo, dirette a me ma intenzionalmente fuori mira. Certo, so che prima o poi mi potrebbero centrare, ma io non voglio scudi e non voglio svicolare. Non ho nessun motivo per farlo, semplicemente. Anzi, in fondo vorrei darti un buffettino sulla fronte, di quelli che dicevano chiaramente «Sveglia! Ricordi? Capisci?». Un’ultima volta. Solo che le cose sono cambiate, e avrebbe l’effetto di un sonoro e provocatorio ceffone. E allora la contrizione lascia spazio ad una pena infinita. Prima o poi finiranno le frecce, e giungerà l’armistizio. Non ci vuole poi tanto.
Ho un’ansia che difficilmente saprei spiegare. O motivare. Forse è perché sto compiendo sforzi disumani per convincere il mio inconscio a non assecondare questa sorta d’istinto di protezione e tagliare quindi un filo che invece va serbato ad ogni costo.
Ma è il caso di fare un’ultimo sforzo: il premio varrà qualsiasi sacrificio.
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