La superficie di taglio fra un coltello e l'aria è inizialmente molto ampia, delineando forme perfette, nette, invisibili. Col tempo, l'aria si consuma. Diventa densa, pesante. L'attrito si rivela in tutta la sua forza, il braccio ormai stanco delinea forme imprecise, fendendo colpi sempre più deboli, superfici claustrofobiche.
Oggi è lì, seduto sulla riva del fiume. Guarda l'acqua scorrere, con disprezzo. Entrambi non incutono alcun timore, non hanno nulla di prepotente. Si guardano a vicenda, scrutano le forme, cercano una scusa per parlarsi.
Gli scarponi pesanti rendono i movimenti goffi, indecisi. Avvicina il piede alla supeficie, si lascia accarezzare dal flusso lento, costante. Ma non succede niente. L'acqua si lascia toccare, indifferente. Risentita, violata, scivola sotto la suola e prosegue oltre.
Lui prova una fitta allo stomaco. Come un pugno. Ritrae il piede. Poi, lentamente, lascia il piede nudo. Lo massaggia, per appianare le impronte delle calze, i segni della stanchezza, la fatica di un cammino troppo lungo.
Immerge il piede con una spasmodica delicatezza. Stringe la gamba tra le mani per rallentarne il movimento. Appena tocca l'acqua, un brivido corre lungo la gamba, fino alla schiena. Resiste. È fredda. È fresca. È piacevole.
L'acqua assiste al gioco dell'infelice. Con altrettanta dolcezza lo accarezza, lo avvolge. Si appropria della sua pelle. Rallenta il passo, impercettibile. Bacia le sue vene calde. Non c'è un motivo, eppure vorrebbe che si immergesse completamente. In lei. Per poterlo inghiottire. Per potersi appropriare della sua misera esistenza.
Della sua infinita, minuscola, essenza.
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