Mi ricordo di un cucciolo.
In una gabbia di cristallo. Le stagioni passavano, per lui erano indifferenti. Sempre piccolo e atrofico. Tremava di freddo, eppure lo baciava il sole più caldo. Sguardo contrito. Improvvisamente si trasformava in un’espressione che vomitava odio e rancore senza motivo.
La sua piccola prigione, trasparente e impenetrabile. Il suo spazio vitale. Aveva sempre di che mangiare, ma non mangiava. Aveva di che dissetarsi, ma il suo muso era sempre rinsecchito. Eppure viveva, perché era il suo ostinato tenersi stretto contro le pareti a dargli vita. Probabilmente, se qualcuno mai fosse riuscito a liberarlo, ne sarebbe morto. Guizzava rapidamente, per questo terrore, al lato opposto di chiunque tentasse di avvicinarsi.
Eppure i suoi occhi volevano parlare. Urlare. Rabbia, delusione, errori, senso di vuoto, di abbandono. Non certo solitudine: qualsiasi passante si prodigava puntualmente nel tenergli compagnia. Per rompere quel muro di vetro, piccola enorme distanza, entro cinque minuti.
Uno di questi fui io.
Improvvisamente ebbi la fortissima impressione di esser riuscita ad entrare in quella gabbia. Lo presi in grembo, lo accarezzai, lo strinsi forte a me, con tutto l’amore incondizionato che potessi offrirgli. Si rintanò, ansioso, fra gli anfratti del mio abbraccio, in cerca di quel calore che desiderava così tanto. Sarebbe anche morto in quello stesso momento, pur di congelare quella gioia in un istante infinito.
Invece la morte congelò le sue sofferenze. L’impressione finì ben presto, vidi in realtà il suo sguardo atterrito. Ringhiando, mi scrutava dalla parete opposta. Scappai. E ripassai pochissime altre volte: non vederlo poteva farmi meno male, o illudermi che ora potesse star bene. Ma l’ultima volta scoprii che aveva deciso di non poggiarsi più ad alcuna parete. Né mangiare. Né bere.
Impenetrabile gabbia funeraria.
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