Ed è così che cade il primo fiocco di neve. Il ricordo del disagio. Poi ne soffi un altro, e un altro ancora. Finché non ne hai ricavato una coltre così spessa da non poterne più distinguere le parti.
È allora che senti l’impulso irresistibile di dar soluzione di continuità a questa massa informe, prendendone una parte, compattandola e donandole una forma con le proprie dita, gelide e intorpidite. Per poterla gettar via prima di dimenticarsene, prima che l’entropia si rannicchi nell’entropia, si nidifichi, attecchisca e ferisca ancora. Per poter pensare, col senno di poi, a quanto fosse futile lasciarsi infastidire da un magnetismo blando e quasi teatrale.
E devi concentrarti con tutte le forze, cazzo, con tutte le tue dannatissime forze. Per non perdere il filo. Ma è un equilibrio così sottile che basta una piccola spinta a far crollar tutto. E allora si salva il salvabile, si stende la trama incompleta, prima o poi arriverà il momento giusto per darne un’ulteriore parvenza di completezza.
Perché, è vero, spesso proprio ciò che è irritante ha, invero, una sua componente seduttiva, catalizzatrice di riflessioni confuse che premono per uscire in qualche modo. Come quando si scardina l’essenza ambigua e astratta con quell’atteggiamento pragmatico, o altrimenti witty, o altrimenti pseudo-carismatico, che mi fa piacere veder applicato ovunque. Ovunque, sì, ma non qui. Non su questo spirito.
E allora perdonami, monade, ma dovrò salvarmi. Salvarmi. Perché voglio un altro nome e un altro cognome. Perché sarebbe potuta essere ciò che non è mai stata, se non avesse reso la storia una sceneggiata. E quindi starò qui, così, bene così, nonostante la mia curiosità. E, in realtà, mai come in questi momenti c’è bisogno invece di quel cuore scaldacuore, se non fosse che per una volta, una volta sola, voglio smetterla di aggrappare i miei artigli ad un qualcosa di così delicato e ferirlo. Non più.
Pian piano tanti punti fermi svaniscono.
E altri, per fortuna, altrove nascono.
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