Dobro.
Giorno lucido spento, caldo e senza sole. Non più notti dal colori blu elettrico e candido-lenzuola, dal sapore di gulaš e pomodori giganti. Non più guanciali che non martellano i dolori cervicali. Non più silenzio e ritmo lento, occhi fissi all’orizzonte dai profili irregolari, cintura di terra rassicurante, e la sensazione di essere in una nuova vita.
Torno a casa e cosa trovo?
Niente.
Solito caos. Soliti motorini che si lanciano contro il rosso come tori moribondi nella corrida. Solita giungla dell’uomo contro l’uomo. E ancora, la solita casa, le solite formichine che strisciano stancamente sul pavimento. E una travarica suicida che sanguina alcol sul pavimento proprio all’inizio del suo show.
Mai come questa volta ho voglia di tornare lì.
Voglio rivedere Duško che risponde contento «Eeeeh, dobar dan!», e voglio vedere se ora che ce ne siamo andati i cechi («Eh, other gosts no gut!») usufruiranno del parcheggio senza sfondare il muretto appena allargato anche per loro. Voglio sorseggiare un’altra Karlovačko. Voglio ascoltare ancora una lingua così diversa dalla nostra ma che accarezza in qualche modo le ciglia. Voglio comprare un’altra travarica lungo il fiume Neretva. Voglio percorrere tutta la strada fino a Sarajevo, con la luce del sole, e senza dover invertire marcia in un punto imprecisato di una Bosnia buia come la morte, e senza immaginare per tutto il ritorno che, se siamo arrivati vivi a Brist, probabilmente siamo stati salvificamente scortati dalla Madonna di Međugorje, insieme a S. Antonio e un congruo stuolo di angioletti. Voglio mangiare ancora quei cavoli strani, i cornetti giganti di Gradac, il risotto al nero di seppia (e che nero!) e i ćevapčići.
E voglio che queste ore scorrano ancora dolci sui capelli da accarezzare e seta da tener stretta fra le braccia. O, chissà, scivolare fra le strade vagabondando eremita verso destinazioni ignote.
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