Gelo. Disgelo.

Dov’è l’amore che spacca le montagne? Dov’è l’amore che spezza le catene, ispira, distrugge e fortifica, separa e unisce, dov’è l’amore che fa morire un po’ dentro e un po’ risveglia il cuore? Dov’è l’amore che arriva con un frastuono immenso, brucia e spazza via, per poi svanire senz’avviso?

Città deserta, cielo torbido, sole silenzioso. Assorbo baci, abbracci, parole, sguardi, sorrisi e bronci. Lo spirito ha fame di nuovi ricordi e nuove antitesi.

E l’alba?

Dov’è l’alba?

Milkman.

Ricomincio a correre, col cuore pesante, cuore di pietra, cuore d’acciaio. Locomotiva a carbone, si nutre di fallimenti, amori perduti e amori lontani. Mi siedo lungo il fiume. I raggi del sole bruciano le epifanie, il fiume le porta via, la pioggia rinfranca. Tutto quello che ho perso è niente, e quindi sorrido molto, sorrido sempre, e quelli che si lamentano di tutto mi stanno assai sul cazzo.

Una bottiglia di Lysoform.

In greco “ritorno” si dice nòstos. Álgos significa “sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgia, nostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli spagnolo dicono añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall’impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra. Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si dice homesickness. O in tedesco Heimweh. In olandese: heimwee. Ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione. Una delle più antiche lingue europee, l’islandese, distingue i due termini: söknudur: “nostalgia” in senso lato; e heimfra: “rimpianto della propria terra”. Per questa nozione i cechi, accanto alla parola “nostalgia” presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro; la più commovente frase d’amore ceca: stýská se mi po tobě: “ho nostalgia di te”; “non posso sopportare il dolore della tua assenza”. In spagnolo, añoranza viene dal verbo añorar (“provare nostalgia”), che viene dal catalano enyorar, a sua volta derivato dal latino ignorare. Alla luce di questa etimologia, la nostalgia appare come la sofferenza dell’ignoranza. Tu sei lontano, e io non so che ne è di te. Il mio paese è lontano e io non so cosa succede laggiù.

(Milan Kundera, L’Ignoranza, 2001)

Ho passato gli ultimi anni a cercare di capire perché stia meglio altrove che in Italia. Perché, ogni volta che torno, finisca presto per aver voglia di tornare alla mia nuova vita, lì. Non riesco a capire cosa sia l’insieme di fattori che mi provocano inquietudine appena poso piede in terra natìa. E cosa mi manca rispetto alle persone che, invece, sono volute restare.

Perché la verità è che, forse, avrei bisogno di cambiare io, e non gli italiani. Voglio dire, mi sembra un po’ arrogante il fatto di dire che un’intera Italia va cambiata in certe cose, quando magari ci sono solo pochi altri a concordare.

Ma il fatto è che ci sono alcune cose che davvero non capisco, specialmente da quando so che un’alternativa è possibile. Per esempio: perché la TV è così di bassa qualità? Sì, ok, Abberlustoni, Viva Zapatero, bla bla, ma a parte questo: perché i consumatori sono passivi? C’è un articolo molto interessante a questo proposito, dove si cerca una spiegazione:

Gli italiani non capiscono. Ecco la vera ideologia della nostra classe dirigente, l’unica nella quale tutti credano, che accomuna cioè non soltanto la stragrande maggioranza dei comunicatori, dei decisori di linguaggio, ma chiunque arrivi a occupare un posto di comando.
È lì che nasce la grande impostura: a chiedere un così brutto spettacolo sarebbe il suo stesso pubblico, il quale non accetterebbe nient’altro e anzi, non vedete?, approva consumando. Sarebbero cioè gli italiani stessi, i mandanti.

Oppure: da quando Internet è diventato uno strumento accessibile alle masse, stiamo finalmente vedendo in pratica cosa volesse dire Gervasio in Capitani D’Aprile quando, a commento del futuro post-rivoluzione, diceva: «il popolo non sono le persone, sono le masse. E le masse servono solo ad una cosa: essere manipolate». Mi viene un po’ di tristezza quando i grillini dicono che intendono seguire la volontà popolare, per esempio. L’opinione pubblica è fatta da dei “molti” che seguono inebetiti l’idea di “alcuni”, idea a sua volta manipolata strategicamente da dei “pochissimi”. In pratica i grillini promettono di assecondare la manipolazione mediatica altrui?

Più in generale, ultimamente arrivo addirittura a domandarmi se gli Italiani, almeno in questi ultimi anni, meritino ancora strumenti democratici come il suffragio universale. Qualcuno suggeriva che forse sarebbe il caso di limitare l’accesso al voto, foss’anche tramite uno strumento banale come un test psico-attidudinale. Un’opzione estrema che purtroppo mi alletta terribilmente quando leggo certi commenti. Ma sospetto che ci sia, in realtà, un problema ancora più fondamentale, un’inghippo nel sistema educativo che non permette alle persone di andare al di là del bipolarismo da stadio che ti porta inevitabilmente a tifare ciecamente destra o sinistra, fascio o mangiabambini. In medio stat virtus, ma è un principio che difficilmente riusciamo sempre ad accettare.

[Se sei arrivato a questo punto e stai pensando: “Allora dovrei votare centro? Tipo, Casini?” Fermati. Lascia perdere questo articolo, ci sei capitato per sbaglio. Fai clic qui.]

Senza contare altri problemi culturali, come questo razzismo all’Italiana che è esploso dopo l’arrivo della Kyenge come Ministro. Ommioddio, ‘na negra. Il papa nero. È finita. I razzisti “soft”, che insinuano la negrità della Kyenge pur mettendo le mani avanti con espressioni standard tipo “non sono razzista ma”, “congolese ma pur sempre Italiana”, “primo ministro di colore”, abilitano i razzisti più hardcore, che approfittano di questo momento per forzare un dibattito più generale sulla xenofobia e riportare in voga tutti gli strascichi fascio-coloniali che avevamo faticosamente lasciato sopire nell’ultimo secolo.

[A proposito di strascichi, il sistema classista gentiliano è veramente ormai morto?]

Un altro punto dolente: perché gli Italiani sembrano così attaccati al passato? I film più belli sono quelli vecchi, le canzoni indimenticabili sono quelle degli anni ’60-’90, i gruppi di nostalgici della propria infanzia (“Sei nato negli anni ’90 se…”) fanno incetta di lacrimucce su Facebook e YouTube, diventare grandi fa schifo… Magari è anche vero che la produzione mainstream fosse più allettante ai vecchi tempi, ma d’altra parte forse è anche vero che al presente non si concede una vera chance. In sostanza, l’Italia è un paese di vecchi dentro, nostalgici di un passato che dovrebbero sì conoscere ma non certo idolatrare. Probabilmente mi si potrebbe rispondere che gli Italiani non guardano al futuro per incertezza. Certo, ma se fosse anche mancanza di coraggio?

Che poi, questo futuro fa paura da quale punto di vista? Il proprio, di certo, non quello della nazione. Perché quello che frega le masse è che le masse si ritengono una congregazione di individui, con le loro specificità; cosa che sì, vale, ma per pochi e solo da certi punti di vista. Le azioni degli individui, su larga scala, seguono trend che in molti casi sono prevedibili, e manipolabili. Ognuno ritiene di aver preso una decisione autonoma, quando in realtà in molti casi è una scelta condivisa con altre migliaia di cui non ti renderai mai conto.

Allora la mia impressione è che, quando gli Italiani pensano al futuro, facciano proprio questo, ossia non pensare al futuro della nazione ma piuttosto al proprio. Al proprio posto di lavoro, al proprio tornaconto, alla propria pensione. Difficilmente si bada a questioni altrui se non si è coinvolti direttamente e nel breve termine. Voglio dire, è normale. Difficilmente si riesce a vedere un effetto indiretto o a lungo termine, come potrebbe essere il sacrificarsi ora per il bene delle prossime generazioni. Più in generale, difficilmente si riesce proprio ad immaginare la possibilità di avere una reale influenza nella gestione della cosa pubblica, perché il problema è sempre dei politicanti, e altrettanto difficilmente si immagina che le proprie azioni possano impattare generazioni successive, saranno altri a pensarci; meglio, piuttosto, pensare agli affari propri, attuali.

Quando al commerciante non chiedi lo scontrino, pensi “massì, tanto che differenza fa uno scontrino in meno”. Quando butti la cartaccia a terra, o non fai la differenziata, pensi “massì, tanto che differenza fa un foglietto di carta in meno”. Quando voti Berlusconi anche se in realtà non vuoi, ma il mafioso o il politicante di turno ti ha promesso un posto di lavoro, ché ce n’è sempre bisogno, o un favorino con quell’abuso edilizio che non ti vogliono condonare, pensi “massì, tanto che differenza fa un voto in più”. Quando evadi quel pochettino di tasse, pensi “massì, tanto che differenza fa un centinaio di euro”. E quando ti dicono che nel 2013 ci sono stati 5mila evasori totali, per un danno di 17 miliardi di euro nelle casse dello Stato, pensi “massì, tanto questi sono i soliti ricconi, mica io faccio la differenza”, seguito da “tanto poi quei miliardi se li sputtanano i politici spreconi come al solito, quindi è pure meglio così”.

E quindi, dicevo, non riesco proprio a capire perché non veda l’ora di tornare in quell’altrove, lontano da qui. Forse, molto semplicemente, è il fatto di essere in un luogo che non conosco altrettanto bene, un luogo dove posso permettermi di essere in una sorta di bolla eremitica dove nulla importa, nulla distrae, nulla influisce. Il che, però, è vero solo in parte.

Ritorna in questa testa.

Le superstrade, qui, offrono una metafora intrigante.

A volte capita di non imbroccare l’uscita giusta. Magari c’è uno che sta in mezzo e non fai in tempo a sorpassare né a rallentare. Oppure i cartelli non sono chiari. Oppure, semplicemente, ti sei distratto al momento meno opportuno. Capita.

A volte devi, perché il motore si è rotto, o non hai più benzina, o il guidatore è troppo ubriaco per continuare. O, magari ci sono dei lavori per strada. Però, si sa, quando ci sono dei lavori c’è sempre un’alternativa, se ti perdi son problemi tuoi.

A volte, in realtà, hai sbagliato tutto sin dall’inizio.
Del tipo che non sapevi nemmeno dove volevi andare.

Qualsiasi sia il caso, c’è sempre modo di tornare al punto dove ti sei perso. Mica facile però. Devi macinare chilometri ancora, prendere un’uscita di cui non sai nulla, andare a tentoni seguendo l’istinto, probabilmente ti ritrovandoti a dover ripercorrere gli stessi punti più e più volte fino a trovare la via giusta. Resti incastrato nel traffico, i semafori infinitamente sul rosso, gente nervosa che cerca di venir fuori dalla tua stessa situazione, tempo ed energie spese inutilmente perché in fondo

Non è facile tornare indietro.
La maggior parte delle volte non ci torni più.
Prendi un’altra direzione.
Addirittura un’altra destinazione.

A conti fatti,
il viaggio è
cento
mille
milioni di
desideri
altrui.

Dove mi porterà il tuo?

Radúz a Mahulena.

Il problema, al momento, è che ti odio.

Odio i tuoi tentativi di far finta che, in fondo, sia sempre tutto a posto. Che magari poi lo è veramente, visto che non ti frega mai niente di quello che accade. Sei un accrocchio di tante realtà messe insieme alla rinfusa, senza capo né coda, che vanno in direzioni opposte e assai poco prevedibili.

Odio il fatto che sia tutto semplice con te. Un bicchiere di lambrusco e un paio di tigelle bastano a cambiar tutto. In un attimo dimentico di quanto sia irritante la tua presenza. Mi innamoro di nuovo. Mi sento a casa. E poi, il giorno dopo, la magia svanisce ancora una volta.

Odio la tua inettitudine al miglioramento.
Odio ancora di più il fatto che sia questo a renderti così bella.
Odio i tuoi profumi, i tuoi colori, odio le luci del mattino.

Odio tutto questo perché, quando vado via, mi manca.
Odio tutto questo perché, quando torno, mi irrita.
Non posso averti perché non voglio volerti.

Le violon frémit comme un cœur qu’on afflige.

Tu sei il bianco e io sono il nero. Tu sei il buio e io sono la luce. Tu sei l'acqua che rinfresca e io sono il fuoco che scalda. La tua esistenza è possibile grazie a me. E la mia grazie a te. Mutualmente ci riconosciamo, soppesiamo, valutiamo, apprezziamo. E infine incartiamo e compriamo. Compriamo le nostre favole e i nostri sogni, li scambiamo, li mescoliamo coi nostri per farne tesoro.

Camminiamo facendo piccoli passi da gigante, allo stesso ritmo. Con lo stesso vigore. Con la stessa stanchezza. Viviamo come due sfere che rotolano lungo lo stesso binario, alla stessa velocità, incontrando gli stessi ostacoli.

Io di ostacolo ne ho uno in più.
Una terra che non voglio,
e che non mi vuole.

E quando vado via,
quando sole torna tra le nuvole,
odio di cuore che mi manchi di cuore.

Estemporanea XVI: Strč prst skrz krk.

L’unica cosa che ho capito con ragionevole certezza di questi giorni è che gli spagnoli in gita ritengono che dentro le macchinette della stazione di Bratislava ci sia un tizio che lecca le monete da 0,50 euro per assicurarsi che non siano, in realtà, 10 corone ceche. Il che, detto tra noi, è una cosa veramente triste. Perché lo sanno tutti che, a parte il colore ramato che ricorda i famosi ramini, ossia quelle disgustose monetine da 1, 2 e 5 centesimi, che chiunque evita di tenere in tasca per non contrarre orribili malattie sessualmente trasmissibili, e che una volta ho provato ad inserire in un bicchiere di coca-cola per due giorni, sebbene non abbia sortito l’effetto desiderato, a parte il rischio di far soffocare e/o intossicare gravemente qualunque sprovveduto intrigato da questo liquido scuro e frizzante in un’invitante bicchiere di plastica, il valore di queste due monete è pressoché identico.

E comunque qui si arriva alla fine del mese.
Male che vada si arrotonda vendendo neve fresca per strada.

Banlieues’ cyst.

E va bene, andiamo via. Non dimenticare una sola lacrima, né un pensiero, né una rotaia. Non lasciar nulla perché questa città non merita nessun souvenir. Prendi tutto e corriamo, perché il tempo ci inghiotte. Prendi tutto e corriamo, perché il tempo ci inghiotta.

Prima o poi ci dimenticheremo chi siamo e dove eravamo,
vestiremo abiti nuovi e maschere irriconoscibili.
Saremo stranieri in terra straniera.
Ci sputeranno addosso,
ci guarderanno con sospetto,
vorranno farci andar via.
E noi andremo via.
Saremo stranieri in terra natìa.
Ci cammineranno addosso,
ci guarderanno con livore,
vorranno tenerci prigionieri.

E alla fine ci stancheremo di correre in tondo nella ruota dei ricorsi, e accorceremo il passo, prima di fermarci. Ma saremo così fottutamente ottimisti, o presuntuosi, da pensare che, in fondo, saremo ancora dei vasi di Pandora.

Cut below this line.

Trottola imbizzarrita, stanca, disgustata, annoiata, cerca chiavistello per tenere a bada questi fastidiosi pappatacî e lasciarli morir di fame e di inutilità. Offresi in cambio un’antica cittadella fra i monti e un’altra in collina, lontane da questo squallore, dove rifugiarsi. Eventualmente anche soli, ma preferibilmente con una morbida tigre tra le braccia.

Una volta qualcuno mi disse che ero una tigre, e aveva paura che lo aggredissi. Io son sempre stato convinto che mostrarsi timorosi di fronte ad un animale selvatico segni inevitabilmente la tua fine. Guardarlo negli occhi e tentare di affrontarlo è già diverso; magari non ti salverà, magari invece si scoprirà un incontro davvero fortuito.

Erano incerti e incespicanti.
Li ho aggrediti.
Che dovevo fare?

Paura di aver paura.

Storia di un calzino spaiato.

Roma è infida. Ora l’amo, ora l’odio. Roma si perde in confusionari giraddestra e poi subitassinistra. Roma si illumina ad arte per lasciarti imbambolato. Roma lascia che il Vaticano ti faccia un controllo di buon costume poco prima di entrare nel suo territorio. Roma ti spenna ma poi ti fa rivendere foulard a prezzo pieno. Roma è calda e ti coccola con un frappè al cioccolato, ma prima ti toglie ogni forza e ti incolla all’asfalto appiccicoso.

Subdola è stata tanto brava, e ci ha sopportati tutte le volte che le abbiamo rotto i maroni al telefono per trovare posti subdolamente veraci o posteggi subdolamente economici. Peccato averla ricompensata facendola rincoglionire appresso a due appestati in piena insolazione. Ma vabbè. Ci rifaremo se ricambierai la visita (nel senso che noi continueremo ad essere insolati, ma ti indicheremo noi un posto dove rinfrescare le fauci).