Di solito si inizia con una citazione.
Stéphane Mallarmé era un tipo di quelli che, tolti i baffoni che fan molto Maestro figo, aveva piuttosto l’aspetto di un tamarrone, con questa riga al centro dalle estremità riccioline. Non avresti dunque mai pensato che potesse dire una cosa come:
Nommer un objet, c’est supprimer les trois quarts de la jouissance du poème qui est faite de deviner peu à peu: le suggérer, voilà le rêve. C’est le parfait usage de ce mystère qui constitue le symbole: évoquer petit à petit un objet pour montrer un état d’âme, ou, inversement, choisir un objet et en dégager un état d’âme, par une série de déchiffrements.
Qual è il problema? Il problema è che le parole hanno perso la loro forza originaria. Le parole non sono più poche e potenti, sono sotterrate da immani quantità di significati, sfumature, plurivalenze. Ricorriamo a sinonimi e perifrasi per una velleità stilistica che non fa altro che rendere ancor più banale la loro efficacia. Frasi che una volta evocavano sensazioni ben precise ora non sono altro che frasi fatte, giri di parole da sfruttare per ogni buona figura. Ormai anche l’autoreferenzialità è diventata un mero esercizio di stile.
E l’amore. Ah, l’amour. Ma lasciamo perdere.
Allora ci trasformiamo in strani esseri che pensano di dire tutto ma, in realtà, per chi ci ascolta, non diciamo proprio niente. Pensiamo a qualcosa di originale ma incappiamo in questo ostacolo comunicativo e finiamo per convincerci noi stessi che in realtà non c’è nulla di nuovo. Magari abbiamo capito qualcosa di forte, davvero forte, ma non ci sono parole per esprimerlo. Che poi non è vero, le parole ci sono, e sono proprio quelle giuste, ma se le usassimo nessuno capirebbe.
Ecco, viviamo viziati da parole viziate.
Allora ti resta solo ricorrere ad una sorta di intento poetico. No, non fare poesia, intendo proprio avere in mente l’idea che ogni parola potrà essere fraintesa, ogni metafora giudicata seguendo i percorsi creati dall’esperienza individuale. Che è difficile capire univocamente, perché è difficile farsi capire. Tentare più vie, a volte ridondanti, per guidarti efficacemente verso l’interpretazione che più ti aggrada.
E finisci con l’oscuro, il criptico. Sopprimere una parola sotto un cumulo di frasi cineree, o altrimenti lasciar fluire le parole e godersi il piccolo spettacolo dell’incomprensione. Che a volte diventa un’entusiasmante gioco interpretativo.
Vi è capitato mai di rileggere un testo a distanza di anni e, finalmente, capirne il senso profondo?
Vi è capitato mai di rileggere un vostro testo a distanza di tempo e scoprire che aver scritto qualcosa di getto era stato in realtà il modo più efficace per mantenere quell’aura sospesa immobile, pronta per essere colta solo al momento opportuno?
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