Category: Story

  • With no remorse I wanna die.

    Pronto? Sì vabbè, sto parlando ad una segreteria telefonica, qui non è pronto proprio nessuno. Mi avevi fatto uno squillo per caso? Con l’addebito poi, sempre il solito tirchio. Non ti fai sentire mai, sembra quasi che abbia il terrore di avere a che fare con me. Ma qual è il problema? Non ti piaccio?

    Senti, per quanto riguarda quella cosa volevo dirti che non ho la più pallida idea di cosa risponderti. Voglio dire, sai che non posso sbottonarmi su certe questioni, e mi è stato incaricato esplicitamente di non lasciar trapelare mai nulla che possa lontanamente evitare all’Uomo quel famoso dubbio… scommetto che non sai neanche di che sto parlando… e certo, ti senti così convinto con il tuo homo faber fortunae suae, e intanto ogni tanto fingi di sfotticchiare quando parli di una certa fatalità nel corso degli eventi… beh, caro mio, su questo punto fammi dire giusto una cosa: non sei una quercia, né un rivoluzionario, ma non sei neanche una canna di bambu’. Sembra che questa frase per intero non riesca proprio ad entrarti nella zucca, uh?

    Sia chiaro, io non voglio metterti fretta. Però forse è giunto il momento delle decisioni… revocabili. E certo, non prendiamoci in giro, perché c’è sempre tempo – quando c’è quel briciolo di volontà buono a sopraffare la pigrizia – per cambiare se le cose non vanno.

    E poi, caro mio, come puoi pensare di poter vivere senza rimorsi? Non farti abbindolare da quegli sparaballe che vanno cianciando in giro di non aver rimorsi… i rimorsi ce li hanno, ma per mostrarsi migliori degli altri li reprimono in un cantuccio della propria coscienza. Guarda, una delle frasi che mi fa più ridere è «ho vissuto una vita senza rimorsi». Ah ah, se solo si rendesse conto di com’è inutile e fugace la sua misera vita si starebbe certamente più zitto! Perché senza rimorsi non riuscirai a morire, e magari potremmo dire anche non riuscirai a morire senza rimorsi.

    Comunque, se ti può aiutare, mentre ti sto parlando sono andato su un sito stupidissimo dove ho scoperto che il numero fortunato associato al tuo nome è il 2. Che novità è? Lo sappiamo tutti, stai sempre a rompere il cazzo con ‘sto due, la dualità, il manicheismo della nonna, conosco-tutte-le-potenze-di-due-perché-fa-molto-smanettone-figo, il conflitto fra 7 e 2 che non… Però è divertente vedere che secondo qualcuno dipende dal tuo nome. Mmm, mi sto sbottonando troppo. Ho capito chiudo cià.

  • Ne me quitte pas.

    – Bentornato.
    – No. "Bentornato" lo potresti dire a qualcuno che ha piacere a tornare qui.
    – E che devo fare, devo cacciarti via? Dovrei farlo, visto quello che hai fatto l’ultima volta.
    – Che ho fatto? Non ricordo.
    – Vieni.

    Mi porta in una stanzetta. Un ripostiglio, credo. Accende la luce. Per terra ci sono cocci di vetro, i resti di una finestra e un tavolo fatto a pezzi. Vicino all’ingresso, sulla sinistra, un martello appeso a dei chiodi. Il pavimento, stretto e lungo, è così pieno da non lasciar spazio al passaggio.

    – Ho una paura fottuta ogni volta che vieni. Ma so che sei venuto per questo motivo. Altrimenti la tua presenza qui non avrebbe alcun senso.
    – Non volevo farlo. Ma devo.
    – Va bene. Vado a comprarmi qualcosa da bere. Quando sarò tornato non voglio trovarti qui.
    – Addio.

    Sparisce nel corridoio. Non appena sento chiudersi la porta mi siedo sui cocci a contemplare questo piccolo mondo devastato. Poi chiudo gli occhi e comincio a piangere. No, non basta. Sento una presenza evanescente prendermi a calci. Sto per prendere uno di quei cristalli e ingerirlo, quando a un certo punto mi solleva di peso in piedi e mi spinge contro la parete. Non c’è nulla davanti a me, eppure sento il suo alito sul mio viso.

    Mi divincolo, prendo il martello e mi lancio contro la porta antistante, con tutta la mia forza. Lascio un buco nel legno. Poi lo ripeto. E lo ripeto ancora, e ancora una volta, finché della porta non resta che qualche pezzo ancora appeso ai cardini.

    Lo sento. Ancora qui. Mi bacia.
    Sollevo da terra uno alla volta le travi più grosse e comincio a gettarle alla cieca nella speranza di incrociarlo. Una trave incrocia una fioriera piena di fiori rinsecchiti dai mille colori. La fioriera scoppia, i petali volano sul pavimento, tinti di sangue.

    Ce l’ho fatta. Ma sento una fitta al petto.
    Non importa. L’ho preso.

    Eccolo. Di fronte a me. Ancora una volta.

    Prendo il fondo della fioriera e mi lancio nuovamente contro di lui. Quel che restava del vetro si frantuma ancora in pezzi più piccoli.

    La mia mano sanguina. Sento un’altra fitta fortissima alla gola.
    Cado a terra.

    Sento aprirsi la porta; è tornata. Mi scuote con vigore, tra le lacrime.

    – Sei morto! Sei morto, lo capisci?
    – Cosa dici? Sono vivo! Mi senti?
    – Sei stato solo uno stupido a pensare di poter uccidere nient’altro che te stesso.
    – Mi senti?
    Adieu, mon coeur.

  • Ri-ciclo.

    Improvvisamente nell’aria si sentì un odore forte, tremendamente piacevole. Stimolava i sensi come l’eucalipto, ma in realtà era una sostanza inodore, e senza alcuna provenienza.

    Era il pipistrello-angelo-drago. Il nostro amico, anche se lo nasconde per timidezza, lo conosce per la verità da molto tempo. Sentì raccontare la sua storia da un certo Ted. E questa fiaba fece allora commuovere un grande e un piccino. Chissà, oggi forse farebbe piangere molti grandi, insieme ad un’infinità di piccini.

    Dove non ha potuto lo sciopero della fame di Pannella, dove non è arrivato lo sciopero della figa guidato da Lisistrata, giunse infatti il canto melodioso di questo essere lontano ad infondere pace e serenità. Un canto dall’odore insolito, per l’appunto.

    Ma il tempo era passato, l’Uomo di Ferro che lo aveva reso schiavo era ormai diventato ruggine. Il drago, dispiaciuto per la fine di colui a cui aveva deciso di sottomettersi e affezionarsi, aveva perso la voglia di cantare. E la conseguenza era intuibile.

    Una notte l’angelo, di nascosto al Committente, con grande sforzo volò fin sul lato oscuro della Luna, per andare a trovarlo. Lo trovò in un profondo letargo, e russava. Eppure anche questo suo strano russare era armonioso e rasserenante.

    Lo svegliò dolcemente, e lui rispose: «Vuoi sapere la verità? Spesso, di nascosto, continuo a cantare. Ma sono cambiate tante cose. Ci sono cinque dimensioni, e la quinta è così lontana rispetto a quella in cui popoli interi sapevano ascoltare questi suoni».

    Allora l’angelo volò dolcemente sul suo enorme muso e, accarezzandolo, gli disse: «Sai che conosco bene la tua mestizia, perché è la stessa che mi ha attanagliato per anni. Ma ora ho buone notizie per te. Ho trovato chi sa ascoltare con sensi nuovi. Sono coloro che riuscivano, pur senza accorgersene, ad apprezzare questo canto senza suono. Ti prego, torna a cantare. In cambio mostrerò loro il motivo dei loro momenti di serenità, perché possano invocarti nei momenti di debolezza e sentirsi rinfrancati dal tuo aiuto lontano».

    Il pipistrello-angelo-drago sembrava commosso.
    Nella penombra si riuscivano a scorgere i vaghi riflessi di occhi lucidi.

    Era da tanto che il drago cercava un piccolo fiore a cui affezionarsi. Ancora una volta.

  • Tumulto.

    – Vuoi forse dire che è necessario, paradossalmente, inseguire i propri sogni per poter conferire alla realtà quell’aspetto tale da consentirci di riconoscerci in essa?

    – Sebbene corretto, non scorgo la necessità di parlare di paradosso. La realtà dipende, in verità, la proiezione del nostro sistema di valori. Detto in altro modo, non esiste un solo modo di guardare alla realtà, ma ognuno ha il suo, e questo dipende da ciò che siamo. Ciò che siamo, a sua volta, dipende da quelle che sono state le nostre esperienze passate. E tra queste la dimensione del sogno ricopre un ruolo importante. Il sognato si accompagna armonicamente al vissuto.

    – Ma se si tratta di una dimensione così differente da quella che viviamo fra un "coma" e l’altro, come può il sogno coinvolgere la nostra visione del mondo?

    – Mio caro, hai mai avuto un sogno nel cassetto?

    – Sì. Volevo fare il fotografo.

    – Ebbene, ad un certo punto ti sei trovato di fronte a due scelte. La prima era quella di inseguire il tuo sogno, e dedicare ogni tuo sforzo ad esaudirlo, scorgendolo così forte e insistentemente presente. La seconda era di accettare già da subito di rinunciarvi, aderendo ad un chissà quale modo di pensare esterno che, volendo, potresti ritenere incondivisibile. Se sei qui a parlare con me, vestito di questi abiti sporchi di calcestruzzo e vernice significa che, magari avendoci pur provato, hai pensato dopo un po’ di tempo che fosse la realtà quella da seguire. Invece io ti dico che avresti potuto inseguire il sogno.

    – Ma ormai è tardi per riprovarci.

    – No. Ricordi? I sogni non hanno tempo.

  • Il sogno del coiffeur.

    Volevo parlare. Ma non riuscivo.

    Sentivo i loro sguardi addosso.

    Coincidenza volle, però, che si presentassero proprio in quel momento sette figure. Una era Socrate, che aveva appena ingerito la cicuta. Poi c’era Nietzsche, che si stava rannicchiando in seno a Schopenhauer che lo accarezzava dolcemente. Seduta in mezzo alla folla si poteva scorgere Moana Pozzi, che non è quella che pensate, bensì la titolare della Manifattura Moana Pozzi scarl. Voltai lo sguardo e vidi anche uno strano animale aggrapparsi sul muretto con i suoi zoccoli, e affacciarsi con le sue tre teste. Ha un non so che di familiare, ma non riesco a ricordar bene chi sia (anzi, chi siano).

    Improvvisamente sentii un’euforia nascere dal punto più interno del ventre e salire, come una sfera d’energia, su per il midollo spinale e scoppiarmi in volto. Tornato cosciente, vidi tutti guardarmi con meraviglia. Guardavo le loro labbra serrate, eppure potevo sentire il loro mormorio. Improvvisamente ero diventato così magnifico.

    Fu allora che cominciai a parlare.

    Non c’erano parole, la mia bocca era ancora sigillata.
    Ma dissi qualcosa del genere.

    Cos’è che ci permette di distinguere la dimensione del sogno, dell’immaginario, dalla dimensione del reale?

    In sostanza è la coerenza.
    Coerenza logica e coerenza temporale.

    Per coerenza logica mi riferisco all’aderenza della connessione logico-sequenziale degli avvenimenti a quelle che sono le strutture logiche del nostro intelletto. In altre parole non riconosciamo il sogno come logico in quanto non riusciamo a trovare una connessione logica o causale in ciò che accade.
    Il nostro intelletto rifiuta (o piuttosto filtra) quello che abbiamo sognato in quanto non può incasellarlo in una sequenza logica di avvenimenti. Ci turbano infatti i sogni che chiamiamo spesso realistici: questi non sono altro se non quelli che possiamo comprendere meglio in quanto costruiti secondo una sequenza logica di avvenimenti, e che potremmo anche riuscire facilmente a raccontare ad altri e, di conseguenza, memorizzare.

    Per coerenza temporale intendo invece la capacità dell’intelletto di collocare temporalmente gli avvenimenti. Chiaramente può anche essere un tempo approssimativo, come il ricordo di "tanti anni fa", o ancora più semplicemente la distinzione fra un passato prossimo e uno remoto.
    Questo nel sogno avviene difficilmente, sia in senso relativo (ad esempio fra un episodio e un altro si può passare in pochi minuti dal giorno alla notte e poi di nuovo al giorno) sia in senso assoluto, nel senso che difficilmente riusciremmo a dire a che periodo della propria vita si riferisce quanto sognato (spesso non ricordiamo neanche tanto bene quando ci è capitato di sognare qualcosa).

    Ma, alla fine, chi ci dice che sia questa la realtà?

    Ovvero, chi ci impedisce di pensare che possa essere, magari, la dimensione del sogno quella "vera", e che in realtà i due mondi difficilmente si incontrano soltanto perché i nostri schemi logici in "questa" realtà sono totalmente differenti rispetto a quelli della realtà del sogno?

    In altre parole, chi può negare con certezza che il nostro cervello semplicemente si rifiuti di concepire l’esistenza di un altro mondo dominato da una logica a sé stante, e che in questo mondo conduciamo una vita parallela di cui non siamo sostanzialmente a conoscenza?

    Provate ad immaginare.

    Se mancasse improvvisamente il requisito della coerenza alla realtà che vedete, ci sembrerebbe di vivere un’unica lunga vita, separata semplicemente da un ciclico coma notturno.

    Una volta conobbi una ragazza che non riusciva a distinguere più il sogno dalla realtà. Il fatto è che non riusciva a dormire da mesi, e per questo la sua mente ogni tanto si sforzava di riposare durante la giornata. Spesso le capitava di avere delle piccole allucinazioni. All’inizio le era evidente che fossero delle invenzioni della propria mente, ma a poco a poco le venne inevitabile dubitarne.

    Non riusciva più a distinguere il reale dall’irreale.
    Perché una percezione del reale ricca di incongruenze non è più realistica.

    Non più allucinazioni, ma sferzate alle fondamenta.

    Avrebbe potuto decidere di uccidersi e non soffrire il peso della sua decisione.
    Sarebbe stata una goccia di incoerenza in un bacino di confusione.

    Tutti rimasero ammutoliti.
    Non capivano.
    Forse cercavano ancora rifugio in quegli schemi così familiari, così rassicuranti.
    Perché era così difficile?

    Eppure a me sembrava tutto così evidente.

    Sentii le mie alucce dare una sferzata nervosa.

  • Il trauma indifferente.

    Eravamo tutti lì, seduti davanti ad un plastico enorme. I partecipanti mormoravano sorridenti, soddisfatti del Nuovo Corso degli Eventi. Una musica in sottofondo spingeva alcuni a danzare sul posto, tanto che uno di quelli, che finora era stato sempre zitto, improvvisamente si era alzato sulla sedia e aveva cominciato a ballare nell’ilarità generale.

    E io mi sentivo così bello nel mio vestitino nuovo. Con due fessure appositamente ritagliate sul dorso. Sedevo alla destra del mio nuovo Padre. Alla sinistra, incatenato alla Colonna dell’Infamia, c’era l’Architetto che, invece, guardava in lacrime i pezzi del suo plastico gettati ai piedi.

    Fu in quel momento che il committente divenne finalmente Committente, e iniziò a parlare.

    «Bentornati. Beh, in effetti dovrei dire bentornato a me stesso. Devo ammetterlo, ho compiuto un grande errore, ed è stato quello di trascurarvi. Purtroppo avevo lasciato il mio progetto in mani adunche e negligenti, e i risultati sono stati pessimi.

    «Tuttavia non farò lo stesso errore. Ho deciso di istruire personalmente e mettere a direzione dei lavori colui che vedete alla mia destra. Vi vedo interdetti. No, non fate così! Non vi spaventi il suo aspetto! Scoprirete, invece, che vi saprà amare, e con la collaborazione di tutti, in particolare del Gran Maestro degli Scalpellini, vedrete quanto sarà ben più entusiasmante tornare a lavorare per questo progetto!

    «E se questo non dovesse bastare, pensateci: state costruendo la vostra casa. Regalerò ad ognuno di voi un appartamento, e qui vorrò che veniate ad abitare. La coesistenza tra voi in questi mesi diventerà così felice che sarete voi stessi a chiedermi di estenderla al di fuori dell’ambito lavorativo. La coesistenza pacifica di tutti voi, senza rinunciare alla vostra specificità. Pensate che non sia possibile? Vedrete che meraviglia, ve lo prometto.»

    Tutti rimasero senza parole. Non era timore, o sfiducia. Ma non era neanche estasi o euforia.
    Erano tutti distratti dallo sguardo di quell’essere ripugnante che implorava di amarli.

  • Sento freddo.

    Ya basta.

    Parole ghiacchiate. Le vedo fendere l’aria che sanguina.
    Poi le parole spariscono, gli squarci – com’è ovvio – restano.

    Crack.

    E il problema in realtà è molto semplice. Quando arrivò il committente e presentò il progetto che aveva in mente, tutti gli astanti rimasero folgorati dalla magnificenza e lungimiranza della creazione che si parava dinanzi alle loro coscienze, obnubilate dalle parole convincenti e carismatiche del latore. Poi però, come succede quando le intenzioni sono solide ma la sostanza è fumosa, ci si rese conto ben presto che la costruzione procedeva in modo difforme.

    Allora successe che l’Architetto proprio in quel periodo aveva ricevuto un succulento acconto di quello che il committente aveva promesso alla fine dei lavori e, anziché scappar via col bottino come farebbe qualsiasi bravo figlio di puttana, aveva ben pensato di far leva sul suo buono sforzo creativo e, con pazienza, aveva riunito in commissione tutto il personale per stabilire una variante del progetto. Il committente in tutto questo non proferiva verbo. Giustamente, poteva succedere che l’idea iniziale potesse venir modificata in favore della sua effettiva realizzazione, quindi non c’era altro da fare che vedere come sarebbe andata a finire.

    Però, dopo un po’ di tempo, la situazione degenerò. Il Gran Maestro degli Scalpellini indisse uno sciopero perché si era fatto uno sondaggio interno all’azienda e si era scoperto che il personale era depresso. Qualcuno si sarebbe anche tolto volentieri la vita. Altri piangevano. Altri ancora si nascondevano per evitare di mostrare le loro crisi nervose. In sostanza ci si rendeva conto che le cose non andavano per il verso giusto, che il progetto iniziale era stato modificato in qualcosa in cui nessuno si ritrovava più, e l’entusiasmo iniziale si era bruciato ed era sepolto sotto qualche mattone.

    Era il caos. L’Architetto chiamava in continuazione il Gran Maestro degli Scalpellini per trovare una soluzione, ma quest’ultimo continuava a non trovar nulla soddisfacente, minacciando piuttosto di chiamare i sindacati che avrebbero sicuramente invocato la procedura di raffreddamento. Non aveva il coraggio di chiamare il committente, perché sicuramente avrebbe deciso di annullare tutto e, a titolo di risarcimento, avrebbe anche preteso indietro quel congruo acconto che, con gran fiducia, gli era stato dato preventivamente.

    Una sera dal freddo glaciale, però, il committente arrivò a sorpresa in cantiere.
    E si rese conto rapidamente della situazione.

    Lentamente, tutti stavano morendo assiderati.

    Entrò in una stanza buia. Accese il faretto che era per terra, e notò una presenza sul pavimento. Aveva delle ali attaccate perfettamente alla schiena, ma erano spezzate e non avrebbe volato più.

    Si avvicinò. Cominciò a sentire un mormorio. Si avvicinò ancora di più.

    Con un filo di voce, quella presenza stava mormorando continuamente, implorante, di curare le sue ali.

  • Virnevera.

    Virne continua a masticare foglioline senza odore. Non può sentire odori, a parte il suo, che è quasi impercettibile eppure così stravolgente, come i feromoni. Può sentire i suoni: un accordo in minore per due occhi sfuggiti al riflesso della luce, un accordo in maggiore per un sorriso pulsante.

    Virne non può morire, ma continua a combattere per la sua sopravvivenza. Ogni anno, per qualche mese, lotta affinché non giunga Vera. Poi Vera vince e lui le deve lasciare il posto. Si lecca le ferite e si prepara a ricominciare l’anno dopo.

    Virne annuncia il suo arrivo con accette che separano il suo predecessore con tagli netti. Alcuni profondi, altri meno, altri ancora delicati, quel che basta per smussare gli angoli. Tutti lo temono, perciò cercano (o si rifugiano nuovamente al) riparo dal suo gelido incedere.

    Forza | affinché non | [siano] cose reali/tangibili.

    La verità di Virne.

    Forze nascoste nascondono debolezze prominenti premiando prostituzioni precotte mentali, mentoniere per menti caduchi e catartici. Catartico: categoria costringente eppure così cataliberatoria. Una serie di kata purificano la memoria. Damnatio memoriae. Non è dimenticanza, ma ibernazione del pensiero. Ibernare l’inverno.

    Virne è cosciente del suo potere.

    Virne lotta affinché non giunga Vera.

  • Aita! Aita!

    Sono dominato da correnti sovrannaturali che scorrono attraverso il mio corpo e dilatano le mie percezioni fino a rendermi quasi incosciente. Non mi è possibile parlare senza emettere suoni indistinguibili e l’unica mia forma di comunicazione è la gestualità.

    No.

    Sono dominato da forze a me ignote che corrompono la mia innocenza e mi rendono instabile e incomprensibile.

    No, no.

    Sono dominato dal mio passato?

    No, no, no.
    Perché cerchi di sembrare più complicato di quanto sia?
    E sì, certo, perché fa figo, vero? Ti fa sentire import…

    Sono dominato dal Cazzo.

    Bravo.

    Ora sei perfettamente allineato.

    Postilla: E adoro poter scrivere "Cazzo" senza temere che MSN Spaces mi censuri.
    Ossimorosa e gli altri emigrati come me mi capiranno perfettamente.

  • Sensazioni acusmatiche.

    Buonasera signor Presidenteassassino.

    Apra pure quella porta.
    Prrrrrtatatattatta-tta-tta-ttta-ttta-ttta… pffft.
    Pardonnez moi, chiederò al garzone un po’ d’olio.

    Dunque, l’ho chiamata al mio cospetto in quanto le volevo far notare che mi ha schiaffeggiato con un guanto nero di sfida. Un guanto nero bucato da un darbuka. Per di più, subito dopo, le sue cinque dita si sono accomodate frettolosamente a ripararsi al calore effimero di questa morbida lanugine.

    In più, e glielo dico in tutta franchezza, non c’è cosa che mi irrita maggiormente del suo maldestro nascondere dei proiettili d’argento. Non lo sopporto, non lo fa più nessun’altro ma lei continua a sbagliare imperterrito.

    Che dirle, faccia pure. Chiamerò tuttavia a mia difesa i miei prodi condottieri. Una base drum’n’bass. Un caprone e una felina antropomorfi. Un vegliardo. Degli occhi arrossati dalla frenesia. E, infine, un oscillatore random. Forse il più pericoloso di tutti.

    Stia attento, signor Presidente. Mi sto rendendo conto di averle dato, finora, troppi privilegi rispetto a quanto avrei dovuto conoscendo la sua indole instabile. Non sono felice. Affatto. E le conviene smetterla, prima che la situazione degeneri nel caos più totale.

    La esorto quindi, come sempre ho fatto, a riscoprire l’antica Unità d’Intenti e collaborare per il Bene Supremo. Il Suo bene. Ne trarremmo vantaggio entrambi.

    Prego, l’accompagno alla porta.