Category: Story

  • Variations sur la neige.

    Atto III.

    Mi costringo a fermarmi.

    Forse, cambiando alcuni elementi nell’ordine solito delle cose… Mi capita spesso di far così, per non restare… restare… per non restare. Costretto a cambiare [continuamente] abitudini. Costretto da chi? Mi costringo a fermarmi perché costringo a fermare unaltromè in corsa.

    Forse, cambiando alcuni elementi nell’ordine solito delle cose potrebbe cambiare… Ma quest’ordine dov’è? Son così emozionanti queste roccaforti, costruite con metodo e pazienza, quando crollano al primo imprevisto. E l’imprevisto è la vertigine sempre più forte. Come quando sono ad un passo dal cogliere il senso vero di un qualcosa. Il senso profondo. Finora erano più che altro assiomi, assunti freddamente come pillole, e sembrava andar tutto bene. Ora è senso profondo. Intuizione del. Ma c’è una frase di cui non riesco ancora ad intuire il senso profondo. Provo a scomporla in due parti distinte, ma le difficoltà raddoppiano anzichenò: «quando si muore, si muore soli». Ecco, di nuovo una vertigine.

    Forse, cambiando alcuni elementi nell’ordine solito delle cose potrebbe cambiare anche la solita domenica. La domenica. Che è come una piccola estate. Anche quando fuori non ci sono gradi e la neve ormai è diventata ghiaccio. Anche quando decido di lasciarmi sopraffare dalle intemperie e stravolgo metà della solita giornata.

    Eppure ieri non era così.
    Piuttosto era ::= rischiare [con] ((una | la) vita){2,2}; [?]

    Atto II.

    È la fottuta sensazione di aver calpestato un feto sotto la neve.
    Resisterà, ma forse crescerà deforme.
    Colpa mia, non d’Iddìo.

    There’ll be something missing.
    Now that you found it, it’s gone.
    Now that you feel it, you don’t.
    It’s gone forever.

    […]

    You’ll go to Hell, for what your dirty mind is thinking.

    (Radiohead, Nude, In Rainbows, 2007)

    Atto I.

    Ero un bambino.

    C’era una luce così strana, riflessa su un interminabile manto bianco. Una volta ero su un aereo che aveva deciso di stagliarsi oltre le nuvole basse. Viste da lassù non son più grigie e tristi, sono una vallata bianca, il paradiso. Il piccolo paradiso ora era sceso qui, di fronte a casa mia. Allora ne ho preso un piccolo pezzo, soffice, e l’ho lanciato in aria. Si è sfaldato in mille piccolissimi veli, che si sono uniti a quelle altre centinaia di piccolissimi veli che esitavano a poggiarsi su di me o scivolar via.

    Poi ho preso un altro pezzo e l’ho stretto nella mano. Forte. Morbido e gommoso fra le dita, tira un morso, mastica e sputa. E avrei continuato così, sentendo un leggero scrocchiare sotto i miei passi, buttandomi all’indietro per sprofondare come in quei prati d’erba soffice e altissima.

    E poi sono andato.
    E il bianco lasciava il posto a un marrone fangoso.
    Che lasciava il posto all’asfalto ghiacciato.

    E camminavo a tentoni, pestando forte, come se volessi impormi sul suolo; oppure, non appena potevo, mi rifugiavo nel rassicurante candore che restava, a sprazzi, un po’ ovunque. E continuavo a guardare, con un sorriso idiota, i rami che avrei presto scosso, i tetti delle auto su cui avrei impresso la mia mano, le scale su cui avrei poggiato il mio piede giusto per lasciare un’unica orma. Insieme a quella di altre centinaia di orme di umani, di cani, di gatti, di copertoni e tavoli. Sì, tavoli. Una piccola tavola mezza innevata sulla la quale mangiare un kebab fatto alla buona, e disperdere il tempo e il calore in una piacevole chiacchierata.

    E poi andrà via.
    E poi tornerà.

    Atto finale.

    Perché ti ostini a riprovarci con quelle canzoni
    a cui hai dato un coltello in mano
    e l’ordine implicito di pugnalarti all’improvviso?

  • Não poderia ser por la constipação?

    Il problema è che era immerso nei suoi pensieri, e sulle prime non se accorse.

    Immerso sul serio. Come se i pensieri fossero liquidi, un lago denso e caldo in cui sprofondare delicatamente in un’ipnotica apnea. C’era un po’ di tutto, tra impegni da rispettare, ricordi da conservare, pensieri da realizzare, e libere associazioni che si perdono in infinite diramazioni, condensando passato, presente e futuro in un’unico, copioso flusso di idee. Uno di quei momenti in cui, mettendo a fuoco il vuoto, si ha l’impressione che il volto assuma da sé un’espressione a volte triste, a volte sorridente, a volte serena, a volte semplicemente inebetita.

    E sulle prime non se ne accorse, quando camminando alzò per caso lo sguardo e lo scorse in lontananza. Ancora una volta riconosceva la sua figura, man mano più chiara nella penombra dei lampioni, quell’espressione inquieta come la sua camminata ricurva e durissima. Lui, che conosceva da quando era piccolo. Lui, che ogni volta vorrebbe raccontargli tante cose ma non sa mai bene che dire. Lui, che ogni volta puntualmente non ti riconosce nei rari incontri per strada, e puntualmente, con un po’ di insistenza, ricollega, si scusa, e ti intrattiene per qualche minuto, per poi salutarti all’improvviso e proseguire per la sua direzione.

    Dicono che sia pazzo. Che soffra di schizofrenia o qualche altra dõença, real ou suposta.

    A me invece ricorda un cane che ogni volta osservo lungo quella stessa strada.
    Abbaia rabbioso ringhiando contro figure intangibili quand’è al guinzaglio.
    Ma scondinzola sereno quando, a volte, si sente un po’ più libero.

  • Fiera delle vanità hardcore.

    Ora. Anni fa.

    16:07.

    Dannazione, sto aspettando da un’ora e quell’idiota non scende. Gli avrò fatto almeno 10 squilli. Siamo in un ritardo pazzesco, e se non scende entro cinque minuti mi prende l’abbiocco di sicuro. Potessi farmi almeno una canna. Quello stronzo. Scommetto che si sta chiavando quella tipa dell’altra sera. Che poi, infatti, che cazzo continuo ad organizzare a fare ‘ste feste, che tanto alla fine io finisco per sfracellarmi di spini e ogni volta non mi accorgo che quello mi ha già lasciato col culo per terra per andare a chiavare con la squinzia di turno. Ogni volta fa così, brutto come la morte, però intanto spara una keta in bocca alla tizia e poi se la scopa sicuro. Ma a me la keta non piace, mi fa sentire come quella canzone di Vasco Rossi, come si chiama… ah sì, Valzer di gomma.

    16:48.

    Porca puttana, abbiamo fatto tardi. Quell’idiota, se n’è stato un’ora in macchina ad abbioccarsi e manco mi ha fatto uno squillo. Che poi dice che li ha fatti. Boh. Li avrà fatti sul cellulare di Marika, rincoglionito com’è. Speriamo che non se la mena quella, che sennò poi chiama a me e mi fa una testa piena con le sue paranoie. E io oggi paranoie non ne voglio avere, voglio stare tranquillo, rilassato. Mo’ finisco di montare e mi rullo uno spino di quelli buoni. C’ho il ferrari. Non so com’è, mi hanno detto che si chiama così «peccè corre velosce». Mah. Saranno le solite stronzate di Gigi. Che strano qui. Vuoto. Freddo. E noi, tutti imbacuccati, buttati su un lato a montare in fretta le luci prima che faccia buio. E fa già quasi buio. Cencio ha acceso due torce già. Porca puttana, abbiamo fatto proprio tardi. Bello ‘sto bomber però, chissà se sta a Bidonville. Dobbiamo montare ancora le casse. Fa così strano. Questo posto così grande, e queste personcine così piccole.

    20:38.

    Ma chi cazzo me l’ha fatto fare. Devo smetterla di stare appresso a quella piccola Emily stramba del cazzo. Se ne va appresso a quel tipo che manco mi ricordo come si chiama, brutto come la morte, che manco se la caga. E ora devo caricare tutte ‘ste cazzo di birre da quattro soldi. Manco una schiava. E poi se ne vengono a parlare di anarchia e di libertà. Ma che cazzo di libertà? La vostra, la pace per far quello che voi volete, e le birre le carichino le piciacchine quindicenni, no? Che poi non mi sento una quindicenne. Odio questi dentini storti del cazzo che fanno tanto quindicenne smielata. Meno male che almeno il piercing distrae. Quanto casino per quel piercing. Uno guarda il labbro e non guarda i denti. Funziona. Come fa Bepi. Oppure guardano i capelli. Li ho fatti crescere apposta. Ma ‘sti capelli li devo tagliare, oppure devo rifarmi il colore. Mi sento una frikkettona comunista. Cagate. Io sono anarco-mandrakista.

    00:56.

    Maledetti cazzoni. Vogliono entrare a tutti i costi. Sta quel coglione che sta spingendo da un’ora. Adesso vado lì e gli spacco la faccia se non la smette. Vabbè, lasciamo stare, se no poi mi impiccio con Sergio, già me lo sento: «gnente cashini, she gno viegne la pula!». Coglione. Falla gestire a me la prossima volta la cosa, che ti faccio vedere come rigano tutti.

    01:02.

    Che casino. Ma perché ha chiuso la porta quello? Io l’ho detto che non mi convinceva ‘sta cosa. Ma Marika ha insistito, voleva che andassimo tutte. Chissà perché poi. Ma io faccio bene a non cagarmela più di tanto, quella è strana forte. Si veste da punkabbestia, se ne viene sempre a ‘ste feste, conosce tutti ‘sti tossici del cazzo. Chissà che ci trova poi. Forse per avere sempre la palletta pronta. Buh. Io non la piglierei mai una palletta da questi. Già prima se n’è venuto uno che voleva darmi una cosa che non ho mai sentito in vita mia… com’era… ketamina… boh. Vabbè, meglio se non ci penso, l’importante è che ci siano le altre, se no qui finirei male.

    02:02.

    Ma quello che vuole? Io la keta non me la prendo. Già mi son fatto due sbarroni di skunk e mi sento un bambino autistico. E se poi mi mando male? Sto da solo, e questi mi sembrano un ammasso di rottinculo. Probabilmente mi lascerebbero a morire collassato o mi sbatterebbero per strada svenuto. Oppure rischio di fare come quello lì. Minchia come sta rallentato. Come cazzo torna a casa quello?

    02:28.

    Meno male che c’era Paola. Essì che mi ero messa il piccio di vestirmi da troione, ma se mi veniva a prendere quel porco capace che mi metteva la mano tra le cosce ogni volta che cambiava marcia. Ma come cazzo è che sono tutti così? Ma stasera sono io che voglio dominarli.

    03:02.

    Luci.
    Sento le vibrazioni.
    Tutto così
    dolcemente
    molle.

  • Hot-swap emotional storage.

    Che strani quei due cuccioli.

    Quando uno dei due si feriva, l’altro correva a leccargli le ferite. E quando entrambi erano feriti, uno dei due si faceva forza, nonostante tutto, e si prodigava in tutti i modi pur di curar l’altro. Perché era importante che esistesse sempre un più forte a prendersi cura di un più debole. E quest’alternanza garantiva la sopravvivenza, perché, nonostante ci fossero anche altri cuccioli ad aiutarli, per loro non era mai sufficiente, se non era quel cucciolo a farlo.

    Ma si rischia di creare, così, una situazione viziata.
    Dove entrambi i cuccioli finiscono per non sapersi più prender cura di se stessi.

    E quando non si sa prender cura di sé,
    come si fa a pretendere di potersi prender cura del prossimo?

  • Passata la festa, passato il santo.

    – Beh, allora io vado.
    – Dai, resta per un caffè.
    – No, davvero, son stanco, devo tornare.
    – Vabbè e quando torni?
    – Fra un anno, ovvio.
    – E perché non fai un salto prima?
    – Sai che me ne frega.
    – Come dici?
    – Hai capito benissimo. Non ci tengo proprio!
    – Essì, vieni solo quando c’è la tua festa.
    – La mia festa? Bah. La mia festa perché? Perché c’è il mio nome sui manifesti? Ma ti rendi conto che ormai di mio non ha proprio un bel niente? Una sfilza di gentaglia che si esibisce nelle fiere e arraffa bigliettini per andar gratis alle giostre.
    – E le messe?
    – Ah beh certo. Vecchiette piagnucolose che mi chiedono di intercedere per i loro morti o le loro sfortune (come se io fossi un mago e loro non avessero libero arbitrio anche lì) e bambini svogliati che nel frattempo pensano al cartone animato che devono correre a vedere quando tornano a casa e nel frattempo piazzano un cappero sotto la panca.
    – Ma lo sai che la festa è solo un’occasione, non puoi pretendere che ti si veneri. Sei un po’ egocentrico in questo periodo?
    – Dannazione, non è di certo per egocentrismo. Voglio dire, ormai è diventato tutto così laico nel midollo. Anche per quelli che si preoccupano così tanto di organizzare al meglio l’evento, alla fine non pensi che per loro non sia altro che una corsa al maggior splendore?
    – Non sono d’accordo.
    – Fa niente, io me ne vado.
    – Vabbè, tanto tornerai. Ti invocheranno, ti vorranno, e tu, volente o nolente tornerai.
    – Purtroppo sì. Ciao.
    – Mpf. Ciao.

  • Di/ver/s/amente/abile.

    Insofferenza. Singulto.

    Perché è solo una piccola goccia che cade in un piccolo lago immobile, viscoso. Le onde si propagano lentamente. Poi, di nuovo, l’immoto. Quando si può si ingaggia una persona affinché si prodighi a raccoglier gocce prima che giungano alla superficie. Raccoltene un congruo numero, le riversa a terra e ricomincia.

    Ma a volte non ne basta una. Le gocce son tante, a volte troppe, non si fa in tempo a prenderne una che dall’altra parte ne son già cadute due. Così c’è chi ne ingaggia tante, e tante ancora. A volte continuano a sfuggir gocce, o traboccano dalle bacinelle, ma va bene così. Tutto confluisce comunque nelle acque tranquille del lago, sì, ma in un modo così dolce, ovattato. Quasi indolore.

    Altre volte, invece,
    inspiegabilmente,
    qualcuno piscia sul lago.

    È questo, credo, quello che chiamiamo delusione.

  • Wherever the sun arises.

    E poi arrivò il giorno in cui spegnesti tutte le luci della stanza per poter fissare quella labile e intensa di quel nuovo sorriso. E vorresti guardarlo per tutta la notte, aspettando che anche l’ultimo raggio di vita si spenga nel ciclico piccolo e dolce coma.

    Sono sempre le stesse mani, quelle che riscopri nuove e piacevoli. Sono sempre gli stessi occhi, quelli che cerchi di rubare ai riflessi dello specchio. Ma è vero, parlano. Puoi leggere interi racconti di vite viste, a volte vissute, di squarci e di semplici raschi, di sentimenti e sensazioni. Di altre mani e altri occhi.

    Non ti eri mai accorto che passerebbe tutta la sua vita con te, condividendo la sua intimità più profonda, cercando continuamente un compromesso in ragione di un equilibrio importante. Non ti eri mai accorto che ti ama incondizionatamente, che non tradirà mai la tua fiducia. E la tua fiducia arriva da sé, forte e stabile, rende inutile la gelosia e questo non è mai un problema. Costantemente felice della tua sola presenza, non se ne stanca mai, la cerca e la trova in ogni notte, rigirandosi languidamente tra le lenzuola, rubando silenziosamente altri cinque minuti alla sveglia.

    Sigaretta al profumo di pescanoce.

  • Contrasto, part II: the sterile monologue.

    Adesso conosco gente che ha davvero qualcosa da darmi. Perché ho delle doti immense, ma ho bisogno di qualcuno che mi stimoli a portarle avanti. Mica come te, inconcludente, che ti accontenti di rimanere nella striminzita cerchia dei pochi eletti che ti stimano, che ti rifugi nella mediocrità, che in potenza saresti un fiore splendido, eccelso in qualsiasi ambito, ma in atto resti sempre un povero seme appena schiuso.

    Scrivi, ma non sei uno scrittore. Fotografi, ma non sei un fotografo. Suoni, ma non sei un musicista. Fai qualche sito, ma non sei un web designer. Fai grafica, ma non sei un grafico. Studi, ma non sei uno studente. Lavori, ma non sei un lavoratore.
    Insomma, cosa sei?
    Sei tutto e sei niente.

    Io non prendo mai una decisione, tu invece ne prendi mille e non ne prosegui una. Come quando ti dicevo, in ogni situazione, che se mi comporto così è soltanto di conseguenza al tuo comportamento, e fra te e te pensavi: «ma alla fine cos’hai mai fatto di tua sponte?». Già, ma alla fine la spuntavo io.

    Ora però c’è uno scrittore che è davvero scrittore. C’è un musicista che è davvero musicista. Un grafico che è davvero un grafico. Un web designer che è davvero web designer. Forse mi manca un fotografo. Ma che fa? Sono bella, sono brava in tutto, davvero in tutto. E mi ci vorrà poco, davvero poco, visto che non potremmo chiamare di certo arte quelle quattro scempiaggini che partorisce il tuo cervellino.

    Artista, tu? Ma fammi il piacere. Non potresti mai chiamarti artista, perché agisci d’istinto, di sensazione, perché non sai dare un motivo. Un artista deve saper sempre motivare quello che fa, altrimenti la gente non lo capisce. A meno che non sia già un grande artista, in quel caso saranno gli altri a farlo per te in lunghi dibattiti di critici e interpreti. Prendi Piero Manzoni. Caga in 90 scatolette e le vende a peso d’oro chiamandole "merda di artista", ma da’ soddisfazione agli acquirenti, dicendogli che quella è la metafora sarcastica dell’idea di produzione d’arte. L’opera d’arte è qualcosa che viene dall’animo profondo della creatività umana? Bene, io mi limito a portarlo su un lato più pratico! Ovviamente contornando il tutto con la solita retorica denuncia della "decadenza dell’arte moderna". E l’acquirente compra merda, con apprezzamenti e soddisfazione suoi e degli amici con cui si vanterà bellamente.

    Certo, pensavi di trovare in me una persona piena di risorse, e invece ti sei accorto che era una facciata dietro la quale si nascondeva soltanto un vuoto che ti inghiottiva. E sono la schizzinosa, sono l’iper-critica, non ti ho mai apprezzato né stimolato. Ma sai perché? Perché anch’io – di conseguenza, ovviamente – ho trovato in te una facciata, e dietro quella c’era il limite invalicabile delle tue potenzialità. E io non voglio una persona che. Voglio qualcosa in più. Qualcosa di più grande, di più importante. Voglio innamorarmi di nuovo. Come sarebbe a dire che significa? Significa che voglio sentirmi lusingata di poter vantare la mia facciata davanti agli altri, rinvigorita dalla presenza di questi semplici, famosi, largamente apprezzati catalizzatori del mio ego.

    Amiche? Ma no, preferisco gli amici.
    Gli amici ti sanno apprezzare con molto più fervore.
    E poi basta così poco per ricompensarli.

    Perché voglio essere la reginetta della mia serata.
    La lunga serata della mia vita.
    Già volta al tramonto.

  • Ya le temps.

    Mi ricordo di un cucciolo.

    In una gabbia di cristallo. Le stagioni passavano, per lui erano indifferenti. Sempre piccolo e atrofico. Tremava di freddo, eppure lo baciava il sole più caldo. Sguardo contrito. Improvvisamente si trasformava in un’espressione che vomitava odio e rancore senza motivo.

    La sua piccola prigione, trasparente e impenetrabile. Il suo spazio vitale. Aveva sempre di che mangiare, ma non mangiava. Aveva di che dissetarsi, ma il suo muso era sempre rinsecchito. Eppure viveva, perché era il suo ostinato tenersi stretto contro le pareti a dargli vita. Probabilmente, se qualcuno mai fosse riuscito a liberarlo, ne sarebbe morto. Guizzava rapidamente, per questo terrore, al lato opposto di chiunque tentasse di avvicinarsi.

    Eppure i suoi occhi volevano parlare. Urlare. Rabbia, delusione, errori, senso di vuoto, di abbandono. Non certo solitudine: qualsiasi passante si prodigava puntualmente nel tenergli compagnia. Per rompere quel muro di vetro, piccola enorme distanza, entro cinque minuti.

    Uno di questi fui io.

    Improvvisamente ebbi la fortissima impressione di esser riuscita ad entrare in quella gabbia. Lo presi in grembo, lo accarezzai, lo strinsi forte a me, con tutto l’amore incondizionato che potessi offrirgli. Si rintanò, ansioso, fra gli anfratti del mio abbraccio, in cerca di quel calore che desiderava così tanto. Sarebbe anche morto in quello stesso momento, pur di congelare quella gioia in un istante infinito.

    Invece la morte congelò le sue sofferenze. L’impressione finì ben presto, vidi in realtà il suo sguardo atterrito. Ringhiando, mi scrutava dalla parete opposta. Scappai. E ripassai pochissime altre volte: non vederlo poteva farmi meno male, o illudermi che ora potesse star bene. Ma l’ultima volta scoprii che aveva deciso di non poggiarsi più ad alcuna parete. Né mangiare. Né bere.

    Impenetrabile gabbia funeraria.

  • In medias res.

    Spegne la sua sigarette con cura, finché anche l’ultima minima porzione smette di bruciare. Ci vuole calma e determinazione, per non far continuare a soffrire questa piccola forma di vita.

    Poi fisso nel vuoto, sguardo immobile, tempesta nell’animo.

    D’improvviso s’illumina, volge la sua attenzione ai chiacchiericci di due conoscenti seduti alla sua destra. Ostenta interesse, sorriso largo, pensieri felici, empatia.

    Cristallo di neve.
    Poi un’altro ancora.

    Si affaccia al parapetto e osserva.
    Vuoto pieno di vuoto.
    Gente che si affretta in ogni direzione.

    Dove mi trovo?

    Dove sei?

    M’hai detto "ti amo", ti dissi "aspetta".
    Stavo per dirti "eccomi", e tu m’hai detto "vattene".

    (François Truffaut, Jules e Jim, France 1961)