Category: Story

  • You do shiver, alas!

    Ainsi qu’un débauché pauvre qui baise et mange Le sein martyrisé d’une antique catin, Nous volons au passage un plaisir clandestin Que nous pressons bien fort comme une vieille orange.

    (Baudelaire, Les fleurs du mal)

    Michele pensa a quale indirizzo dare al suo operato. Uno di quegli scontri delicati tra spleen e ideale, direbbe l’avveduto. L’ideale di un panorama luminoso ed eccitante contro lo spleen di ragazzini con pietroni pronti da lanciare. L’ideale di un’opera splendida contro il mare nero che resiste, e i pescatori di passione e di frodo seduti sullo stesso muretto.

    Miky è così buono, ma ti irrita quando ti sottrae al sovrappensiero. Non riconosce il segnale che sappiamo tutti, quello dello sguardo distratto, che fissa nel vuoto in cerca dell’ennesimo pensiero fugace. No, Miky, non voglio parlare. Uno te lo dice chiaramente. Altrimenti ti seguirei nel tuo incedere tergiversante, tu scopriresti il mio sguardo che implora una chiacchiera stupida, e ti inventeresti qualcosa da dirmi per trastullarti nell’inganno del tempo che non passa mai. Invece no. Hai tante cose che premono per ottenere risposta, e tu non sai resistere. E allora, dai, chiedimi qualcosa contro la mia volontà. E tu sarai salvato.

    Lino è scoraggiato. Il suo starlight si sta esaurendo e la canna non si muove. La fanno facile i perdigiorno. Stanno lì, buoni, si fumano una sigaretta e guardano l’orizzonte, pensando a tutto e nulla fino all’arrivo dell’alba. Così rilassati, sicuri di sé. Io non sono sicuro. Io devo vivere. E queste lampare venute dal nulla mi faranno morire.

  • Baciando la pioggia.

    C’era questa scatola. Questa scatola che molti avevano già aperto. E venivano a parlarmene, concitati. Dicevano: guarda questa foto, guarda! E io volevo aprirla, questa cazzo di scatola, volevo proprio aprirla.

    Sono passati anni, e questa scatola era rimasta lì, buona buona, ben chiusa e schiacciata nei suoi graziosi ritratti. E allora era logico pensare che, ammettendo l’esistenza di una qualche forma di destino, si dovesse semplicemente aver pazienza, e attendere l’elemento-chiave. Che è arrivato.

    Fuga. Divisione. Preziosa. Con.
    Condividere la fuga impreziosendo l’esperienza insieme ad un essere prezioso.

    E la scatola, inutile dirlo, si aprì. Finalmente. Un tripudio di candele, tappeti, lenzuola candide, veli. Calore. Vapori profumati, respirali piano. Riscaldati tra le mie braccia, scivola sott’acqua, riparati sott’acqua, respira sott’acqua. Sono una piccola nuvola che guarda tutto dall’alto, sono una piccola graziosa fottutissima nuvola fragile che ti porterà sempre in spalla e ti vorrà sempre così leggera. Altrimenti si farà pioggia e ti trascinerà ancora via con sé, nascosti e onnipresenti, lontani da qui, per tornare a rasserenarsi, quando tutto intorno torna a tacere, dall’alto di questo piccolo cielo.

    Ce l’ho.
    Ce l’ho e lo stringo forte,
    il mio piccolo cielo.

  • Dormono sulla collina.

    Arrivammo tutti, alla fine, a quel punto della propria esistenza in cui il desiderio d’identità fa capolino e bussa insistentemente alla porta. Esigenza, a volte, funzionale e limitata nel tempo, altre volte fondamentale per il prosieguo dell’esistenza.

    Uno decise di essere l’ultimo baluardo della musica hard rock degli anni ’70. Quegli anni non li vide mai, ma li sentiva propri, tanto che amava discorrere non soltanto delle musiche, ma anche del contesto di persone ed eventi storici che gli hanno caratterizzati. Odiava sua sorella, l’esatto opposto di lui, una vergogna per la famiglia, menefreghista e ascoltatrice assidua di neomelodico. Quanto più lei si affezionava a questo genere, tanto più lui si affezionava ostinatamente all’altro. Quando lei buttò l’ultimo disco di Gianni Celeste prima di partire per un master in Olanda, lui ripudiò Paranoid dei Black Sabbath.

    Un’altra decise di rifugiarsi nella cultura. Il suo essere snob, selettiva, critica e cinica, la rese ben presto la migliore delle intellettuali di sinistra. Passò alla storia per aver letto metà de Il Capitale in sei mesi, e questo la inorgogliva, e le dava la spinta giusta per proseguire. Riconosceva la mitizzazione del suo personaggio, su cui lavorava e giocava, e così fece molto a lungo, traendo nutrimento dall’odio che mieteva intorno e dall’adorazione dei pochi affini. L’infinita bellezza del suo intelletto compensava un aspetto esteriore che non riusciva ad accettare.

    Altri due, volendo anche tre, erano accomunati dalla scelta di non scegliere. Vagavano ingenui e istupiditi, come falene che speravano di trovare in qualche fonte luminosa la propria verità. Questo status da scemi che non vogliono far la guerra garantiva loro, tuttavia, grande discrezionalità nel criticare scelte altrui, a volte anche proprie, e cambiare idea a proprio piacimento. La loro caratteristica era quella di non avere caratteristiche. Di non avere un’identità precisa. Questo li teneva lontani dalle critiche, le stesse con cui i loro genitori erano riusciti a reprimerli e renderli costantemente insicuri. Dove gli altri non erano arrivati con schiaffi e le punizioni, questi erano riusciti nell’arduo compito di dominare i propri figli.

    Dormono sulla collina.

  • Meu fado meu.

    Il cricetino corre all’impazzata lungo il percorso infinito della sua ruota, e vorrebbe prendere un giorno qualsiasi e allungarlo in misura altrettanto infinita, per continuare a correre e scoprire cosa lo aspetta alla fine.

    Nei momenti di pausa scenderebbe, indugiando sul percorso della spirale da far scorrere sotto le dita, e guardando il giorno intorno con ostinata indifferenza, lasciando che – una volta tanto – il desiderio di fuga si nutra dell’attesa.

  • Che. Ché.

    Una volta vomitai incomprensioni e giudizi, sale e passione, turbini roboanti di pensieri e tentennamenti inscatolati in biglie pesanti come il piombo. Ne raccolsi un po’ in una bottiglia e la gettai in mare. La spiaggia era umida. Il sole del tramonto, di fronte a me, arrossava le nubi ancora compatte.

    La vidi allontanarsi, nuda e grave, verso un’isola che si profilava timidamente all’orizzonte, per poi deviare sulla sinistra. Il mare ondeggiava dolcemente, avvolgendosi a volte in labili pieghe, sensuali come un fianco carnoso in torsione. Tornai a casa e mi addormentai sul letto nuovo.

    La mia bottiglia arrivò su una spiaggia che non vedrò mai, raccolta da un ragazzino che, preso da sconforto, la rigettò poco più lontano. Scorrendo ancora attraverso il mare, giunse alla sponda opposta, trascinata da una tonnara, tenuta stretta da una tartaruga rassegnata a morire. I pescatori presero la tartaruga sanguinante e la bottiglia e buttarono entrambe di nuovo in mare, lontano dalla mattanza.

    La tartaruga morì sul fondo pochi metri più avanti, diventando poi preda di turisti divertiti dal suo carapace. La bottiglia invece continuò a scorrere, lenta, fino all’estuario di un fiume che univa due popoli divisi da tempo. Una bambina la raccolse, ma poco dopo sua madre la convinse a tornare piuttosto ai suoi panni. Se la portò dietro, incuriosita, ma dopo del tempo la gettò via, annoiata.

    La bottiglia finì in una discarica, e lì restò a lungo, finché un’inondazione la trascinò rapidamente verso quello stesso fiume dove si era fermata, e da lì riprese il suo percorso.

    Quando la bottiglia, anni e anni dopo, tornò a me, la trovai completamente diversa. Qualcuno l’aveva svuotata e, al suo posto, l’aveva riempita con acqua di sorgente.

    Non saprò mai chi sia stato, ma ricordo che la bevvi tutta d’un sorso.
    Poi tornai a casa, e mi addormentai sul letto nuovo.

  • Valutazioni psicosomatiche.

    Ad un certo punto decisi di arrendermi.

    Sì, insomma.
    Arrendermi.
    Basta con queste puttanate.

    Ripresi a studiare. Studiare mi piaceva da morire. Trovavo estremamente interessante tutto quello che studiavo. Anche quello che non capivo. Era tutto permeato da una strana aura di autorità, l’autorità della sapienza, quella che ti accarezza solo se sei docile. Ed io fui così docile. Tanto da meritare 110 e lode.

    Feci un master e altri corsi di perfezionamento. Poi, ad un certo punto, decisi che non avevo più nulla da imparare. Allora smisi di studiare, e presi un cane. Lo addestrai per bene. Finora i cani che avevo erano pericolosamente liberi, e pericolosamente correvano qua e là facendosi del male (perché la libertà fa male, l’avevo imparato). Questo cane invece mi seguiva senza guinzaglio, sempre affettuoso e docile. Non so se per paura o per pietà.

    Tornai dal mio datore di lavoro con i miei attestati di docile condotta. Lui si fece una grassa risata, e mi disse che con quel pezzo di carta non andavo da nessuna parte, e se volevo tornare dovevo continuare a fare il lavoro di sempre, o altrimenti me ne dovevo andare da qualche altra parte. Continuai a fare il lavoro di sempre, lo trovavo così adorabilmente rassicurante. Il mio datore di lavoro non credeva ai suoi occhi, ero così bravo e docile che decise di accarezzarmi con l’autorità di una splendida carriera, e docilmente arrivai ad uno stipendio che mi permetteva di comprare tutto ciò che volevo.

    E compravo davvero tutto ciò che volevo. Comprai una BMW come avevo sempre sognato, e correvo su e giù per l’Europa in barba a tutti i Tutor. Quando non mi andava di rodere punti mi limitavo a saltare qua e là con l’aereo. Il jet lag è fastidioso da morire. Oppure tornavo a casa e mi accoglievano luci soffuse ed un impianto stereo grandioso, pronto a suonare alla perfezione A night in Tunisia, ma che piuttosto preferivo usare per ascoltar meglio i rumori di fondo di un qualche reality show.

    Non fumavo più, non bevevo più, la mia piccola ossessione era la continua ricerca di cibi assolutamente sani. Andavo a dormire alle undici in punto, cascasse il mondo, e mi svegliavo alle sette in punto, cascasse il mondo. La mia vita era un continuo ciclo regolare di sonno-veglia-lavoro-tempo libero. Nel tempo libero mi concedevo a volte una docile cena con i miei nuovi docili amici. Non ho più voluto una compagna fissa, si sarebbe trattato di una sregolatezza semplicemente inammissibile.

    Ero
    perfettamente
    allineato.

    Inutile dirlo, era pura armonia.

    Arrivai al termine della mia vita piuttosto presto, con un tumore alle ghiandole surrenali mal curato. Mi dicevano che era colpa dell’eccessivo stress, ma io non mi sentivo affatto stressato. Continuavo a non capire. Non capivo davvero. Era terribile vedere tutti i miei docili ritmi distrutti in un letto d’ospedale. Ma l’autorità dei medici era indiscutibile per un povero (docile) malato, perciò ad ogni fitta mi mordevo la lingua fino a svenire; qualcuno poi si ricordava di me e, prontamente, mi iniettava una dose di morfina per rendere me e il mio dolore quanto più docili possibile.

    Il mio letto era a fianco di una finestra rivolta all’alba, con persiane grigie, come le pareti. Una mattina mi risvegliai con un fiore in mano. Non mi chiesi di chi fosse. Era il fiore più bello che avessi mai visto. Eppure era un fiore qualunque.

    Improvvisamente mi resi conto che per anni avevo smesso di guardar fiori, cielo, pioggia, nuvole, sorrisi e gonne lunghe. Avevo smesso di guardare oltre, al di là, al di sopra. Guardavo solo dritto. Dritto. Con la testa docile, pronta a farsi accarezzare dall’autorità dei tuoi genitori che volevano il miglior futuro possibile per il proprio figlio, e che io ho voluto sempre rispettare per non deluderli. Non so se per paura o per pietà.

    Quindi scoppiai a piangere.
    E, piangendo, morii.

  • Finché avrà un’ombra di sobrietà.

    Ci ritrovammo tutti ai piedi dello stesso albero.
    Dovevamo urlare.

    Una luce insolita illuminava debolmente il tronco larghissimo, tutto intorno affogava nell’infinito. Dovevamo entrare. Vanghe, calde per l’attrito, si raccoglievano ai bordi della buca. Una persona per volta. Dovevamo entrare. Raccogliersi dentro una buca, per garantirsi il senso di sollievo necessario. Dovevamo entrare. Alza lo sguardo. Notte senza luna, infinite stelle. Eravamo lì perché dovevamo urlare. Dovevamo entrare. Dovevamo urlare. Ognuno ha qualcosa da dire alla luna assente, le stelle faranno forse degne ambasciate.

    Dobbiamo cominciare.

    Iniziò il primo. A pancia in su, la nuca poggiata sul bordo del fosso, braccia incrociate a stringersi forte le spalle, straziò il cuore con un urlo inaspettato, potente, corroso dalla necessità. Si riusciva quasi a toccare il suo cuore, vederlo vagabondare inquieto tra monadi, castelli e fondali marini, guardarti con occhi dolci che ti implorano di stringerlo forte a sé, causeresti la mia fine ma non importa, amore mio, stringilo forte contro di te, il mio piccolo cuore è anche il tuo ora, riesci a sentirlo pulsare insieme al tuo? Un unico fortissimo battito che squarcia il corpo fin nelle viscere.

    Poi entrò il secondo. Ancora dritto in piedi, non ebbe il coraggio di guardare oltre le ultime fronde dell’albero. Scoppiò a piangere. Piangeva a testa bassa. Ogni singhiozzo era un sussulto che ci scuoteva come frustate. Cantava il suo piccolo mondo, protetto da quello reale da immense fortezze. Un giorno, però, qualcuno fece una piccola breccia. Da allora, col suo piccolo cuore affaticato, corre qui e là, per ovviare ad un qualche crollo, che ne causa un altro, e poi un altro ancora. O, a volte, aspetta che tutto si distrugga per poi, con pazienza, ricominciare.

    Arrivò il terzo. Si muoveva lentamente, aspettando qualcosa. Guardò le stelle attentamente, quasi le volesse contare una ad una. Ad un certo punto ne trovò una. Non era la più bella, né la più grande, né la più piccola né la meno luminosa. Non faceva parte di nessuna costellazione. Lì, sola, indistinguibile nel marasma di luci tutte uguali. La guardò e stirò la braccia fino a volerla raggiungere. Senza poterla raggiungere. Sì arrampicò fin sulla cima dell’albero per esserle più vicino. Senza poterle esser vicino. Quindi, deluso dal fallimento, si lasciò cadere.

    Il quarto lo guardò con sorriso benevolo. Di chi sa già la data del prossimo incontro. Ma, dopo qualche minuto, il terzo si riprese. Era caduto sulla terra morbida e umida. Il quarto lo baciò dolcemente, lo aiutò a rialzarsi, e insieme andarono via, lasciando tutti gli altri in lacrime, perdendosi poco più in là, nell’infinito.

  • The Dumper, last episode (at late night, double feature, picture show).

    Maledetti pecoroni.
    Avete quello che meritate.

    Per questo e mille altri motivi non ti lascerò.

  • The Dumper, special edition!

    › Con la collaborazione di #9.

    Oggi è un bel giorno di sole.

    Caldo, luminoso, con un venticello fresco che iovolevorestareacasaperlatonsillitemaproprionièente. Quale migliore occasione se non questa per una gitarella in extremis, in barba agli impegni? Fra le fresche frasche, le campagne, le camporell… ehm… vabbè insomma, era situazione bucolica, questo si è capito.

    E dunque: i fiori fiorivano, le immondizie immonnezzavano, gli uccellini uccellavano; e lui era come Rinaldo che si specchiava negli occhi di Armida, che a sua volta si specchiava negli occhi di Beatrice, che a sua volta si specchiava negli occhi di Iddìo in persona, che a sua volta si specchiava nello specchietto retrovis…

    – Ale, c’è una macchina.
    – No allora senti, se mi chiami "Ale" già cominciamo male eh?
    – No Ale davvero, c’è una macchina della Polizia, svelto!
    – Sì vabbè, ma che scherzi da prete, dico io.
    – …
    – [guarda allo specchietto] …
    – Muoviti!
    – Cazzocazzocazzocazzo…
    – Madò!
    – Ma tanto noi non stiamo facendo niente, oh.
    – Prima di tutto siamo in una proprietà privata, e comun…
    – Ma dài, non c’è scritto da nessuna parte, e poi non ci sono neanche cancelli, murett…
    – Ma dobbiamo stare a fare proprio adesso la disquisizione giuridica? MUOVITI!
    – Ehm… sì… cazzocazzocazzocazzo…

    La macchina della Polizia si avvicina sempre più e si ferma ad un metro.
    Gli arti cominciano ad avere rapidi movimenti di chiaro stampo parkinsoniano.
    Continuiamo a guardare allo specchietto (o meglio, uno continua, mentre l’altro più che altro si ostina a non volersi metter gli occhiali in preda ad una idiotissima crisi isterica).

    – Madò adesso scendono e ci fanno la multa! [si tuffa nei meandri più reconditi della macchina in cerca dei calzinicazzosempreilcalzino]
    – E che cazzo ci inventiamo?
    – [si ricorda che la maglietta è al contrario e, stoicamente, incurante dei 40° all’interno dell’abitacolo, indossa il maglione]
    – Madòmadòmadò…
    – Cazzocazzocazzo…
    – Madòmadòmadò…
    [ad libitum]

    – Ma non scendono?
    – No, uno sta agitando le mani, come a dire "ma avete finito?"
    – Non è che magari sta chiedendo se è tutto a posto?
    – …
    – …
    – Ehi, ma se ne stanno andando! [tutta tremante]
    – Davvero? [gli occhi si illuminano e ne approfitta per puntarli all’abitacolo in cui intanto risulta ancora disperso l’altro calzino]
    – Beh, allora andiamo… [tira un sospiro di sollievo, quindi scoppia in una risata isterica da 42’33"]

    – No, cazzo, sono fermi all’incrocio!
    – Adesso ci fermano…
    – Bisogna dimostrare che stiamo insieme!
    – Perché scusa?
    – Perché secondo me pensano a roba di prostituzione…
    – Beh, non mi pare proprio di avere le fattezze di una nigeriana!
    – E metti che ti prendono, chessò, per una rumena?
    – Ti sembra che abbia la faccia da prostituta?
    – Beh, potresti essere una che lavora in proprio…
    – Ma che cazzo dici?! Piuttosto vuoi levare ‘sto portaf… vabbè, faccio io! [toglie il portafoglio dal cruscotto]

    – Oh senti, adesso devono girare, e noi giriamo dalla parte opposta e basta…
    – Hanno svoltato a destra!
    – E io vado a sinistra!
    – No, aspetta, di là dove andiamo a finire poi?

    Dispersi tragicamente nel ritrovare la strada, persi fra le lande desolate di paesini a malapena conosciuti per via dei loro nomi arcani. Rischiando di morire di fame, lei decise di addentare lui in preda ad un raptus. Lui, in preda ad un accesso di rabbia funesta, decise di venderla ad un suo amico pappone sulla SS96, e sparì in Venezuela dedicandosi al commercio clandestino di organi.

    Smettiamola col terrorismo psicologico della Polizia.
    Free camporella.
    Ebbà.

  • The Dumper, episode VIII.

    Perché sei ciò che sei stato e che ti è capitato. E questa è una maledizione che non ti scollerai mai più di dosso. Un giorno ti sveglierai e ti accorgerai che, wow, non interessa più a nessuno! Non gli cambia la vita né, in verità, la sfiora neanche con una punta di spillo! Ma continuerà a tormentare te, quando non te l’aspetti, più che chiunque altro; e non ti darà respiro perché sarai tu a non voler respirare.

    Eppure è semplice.
    Anziché sentirti schiavo del tuo passato,
    puoi essere padrone del tuo futuro.
    Ricordi?

    Sì, lo sappiamo tutti, non è del tutto vero, si è padroni… a metà, ecco.
    Lo sappiamo tutti tranne te, che vivi schizzando da un eccesso all’altro.

    Ma prima o poi dovrai capirlo.
    Da solo.