Category: Spent days

  • O Solresol, Solresol, warum bist du Solresol?

    Un pazzo è come una rosa. Gli cambiamo nome quando ci sembra estraneo, insondabile o incomprensibile, ma il profumo resta sempre lo stesso. Ricordatelo, voi i cui discutibili metodi creano mostri senza cervello. Senza memoria. Senza cervello.

    › scorrere · sfiorare · scivolare ‹

    Le dita scorrono sulle corde, come la schiuma scorre nella Guinness ultrasuonata, come i copertoni che scorrono sulla tangenziale deserta, come il tuo bacio sfiora il mio sorriso, come i nervi a fior di pelle sfiorano gli altri nervi, si scontrano, per poi lasciarsi scivolare tutto addosso.

    Questo a me piace, questo lo si può vivere. Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi, milioni e miliardi di tasti che non finiscono mai (e questa è la vera verità, che non finiscono mai), e quella tastiera è infinita… Se quella tastiera è infinita, su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare.

    (A. Baricco, Novecento)

    Una parola sola.

  • Get in deep ‘n’ dance.

    Claudine sognava continuamente quel fiume ambrato attraversare il suo spirito, sorseggiarlo, e impregnarne le vesti calde, sporche dei resti di due posacenere usati a lungo senza criterio. Altalenava il sorriso di un motto salace al pensiero melanconico del desiderio. Si riempiva la bocca di sapori aspri che mantenessero vivo il suo sorriso acido, e subito dopo desisteva in favore di un armistizio sociale al sapor di nocciola. Sciorinava ricordi da due balconcini caldi e umidi, per poterne scrutare la trama sempre più linda da briciole maleodoranti. Succhiava avidamente essenze velenose, e si chiedeva quante altre volte lo potrebbe fare in 6840 minuti, che poi che saranno mai rispetto ai restanti 121320, o chissà quanti altri ancora, e sarà la direzione giusta in cui incanalare tutti quegli sforzi finora così sprezzanti di un’incosciente autodistruzione, perché forse non chiede altro che un po’ di attenzione, come due occhi felici e un cuore che scodinzola con gran gesto.

    Nell’attesa, datele qualcosa di vero.
    Purché non faccia troppo male.

  • Ma, per favore, non mordermi sul collo.

    Sono movimenti isocroni, coincidenze che scorrono e portano via le paure, un cuore che improvvisamente pulsa in un unico fortissimo battito. Non avrò più paura. Parole latrici di ricordi passati che non saranno più stati. Non saranno mai esistiti.

    Se potessi partirei oggi stesso. Ovunque. Magari per sempre. Mi insegneresti tutto quello che c’è da imparare, e lasceremmo alle spalle queste radici marce che ci tengono legati qui. Quelle radici fatte di amori perduti e amori morbosi, di noie e fastidi, sguardi indefiniti e parole che si sperdono in mille altre.

    Quelle sono radici ispessite dall’idea troppo fertile che ci porta ad essere ciò che siamo stati. Idea certamente imprescindibile, ma che – riesci a vederlo? – molti, troppi patologizzano pateticamente. E, anziché continuare ad essere una mera essenza, la semplice complice di una sintesi, fanno del loro esser stati ciò che vorranno essere per sempre. Perché vorranno essere sempre tesi. O sempre antitesi. Senza nessun progresso, nessun cambiamento.

    Eppure si cambia. Ci si fa male, si cicatrizza e poi qualcosa cambia. Cambia continuamente quello che ci circonda, e cambiamo anche noi.

    Purché non cambi quell’essenza, quella che ci ha donato un giorno la coscienza di sé.

    Altrimenti non si è più sé.

  • Forse quest’anno è iniziato un po’ tardi.

    Galleggio nell’aria,
    rivedo la vita.

    [RestArt, RestArtarant]

  • Sui ggiovani d’oggi ci smughetto su.

    Siamo nella merda.

    Però rido.
    E piango.

    Ma soprattutto sorrido.
    Continuamente.

  • Estemporanea VI.

    Sì, è vero, dovrei smetterla di fare il riottoso nei confronti del Natale.
    Che poi, diciamocelo, non è che lo odio.
    Anzi, fintanto che lo adorano gli altri lo adoro un po’ anch’io.

    Del resto è un’occasione da sfruttare pienamente: i regali, cenoni in cui lanciarsi avidamente per arraffar cibarie (più o meno) prelibate, alcolici messi candidamente a disposizione da Trimalcioni dell’ultim’ora, Christmas Card per rompere i maroni ai soliti noti per qualsiasi cosa tranne che le dovute catene di Sant’Antonio e i dovuti auguri, e altro ancora.

    Però.

    Se oggi è l’unico giorno a disposizione per potermi muovere liberamente.
    Se oggi sembra la giornata ideale per far compere girovagando tra i negozi, con quel cielo uggioso che ti invita necessariamente a ripararti dalla la potenziale tempesta, e inevitabilmente guardar la merce esposta tra un "uuh" e un "ooh", e poi sgusciar via al primo cenno del commesso.
    Se oggi ti trovi a non poter far null’altro, anche volendo per distrarsi un po’ dal senso di colpa di te che stasera ti darai agli allegri bagordi insieme ad altri ben noti beoni, aggrappandosi al ventilatore schizzando spumante contro le pareti (spero che D. non scopra mai questo blog), mentre quella povera buonanima si contorcerà nel letto insonne, preda di stati febbrili-comatosi (ok, mi sa che sto per provocare una strage).

    Tu, negoziante, perché non segui la mia logica ferrea e non apri il 26?
    Dico, hai aperto il 24, hai aperto pure il 25… il pranzo del 26 che lo fai a fare?
    Metti che c’è uno (a caso) che il 24 e il 25 ha avuto ben altro da fare che comprare i regali, e ora si è reso conto che tutti gli altri l’han fatto, e per sgusciar via dalla figura di merda contava su un blando "no dài, scusami se ti ho portato solo ora il regalo, ci avevo già pensato la settimana scorsa ma ho avuto un sacco di cose da fare e non ho fatto in tempo a portartelo".

    Mi metti evidentemente in una situazione difficile.

    Negoziante, preparati ad un assalto all’alba di domani.
    Vabbè, un po’ più tardi dell’alba.
    Ma comunque preparati.

  • Variations sur la neige.

    Atto III.

    Mi costringo a fermarmi.

    Forse, cambiando alcuni elementi nell’ordine solito delle cose… Mi capita spesso di far così, per non restare… restare… per non restare. Costretto a cambiare [continuamente] abitudini. Costretto da chi? Mi costringo a fermarmi perché costringo a fermare unaltromè in corsa.

    Forse, cambiando alcuni elementi nell’ordine solito delle cose potrebbe cambiare… Ma quest’ordine dov’è? Son così emozionanti queste roccaforti, costruite con metodo e pazienza, quando crollano al primo imprevisto. E l’imprevisto è la vertigine sempre più forte. Come quando sono ad un passo dal cogliere il senso vero di un qualcosa. Il senso profondo. Finora erano più che altro assiomi, assunti freddamente come pillole, e sembrava andar tutto bene. Ora è senso profondo. Intuizione del. Ma c’è una frase di cui non riesco ancora ad intuire il senso profondo. Provo a scomporla in due parti distinte, ma le difficoltà raddoppiano anzichenò: «quando si muore, si muore soli». Ecco, di nuovo una vertigine.

    Forse, cambiando alcuni elementi nell’ordine solito delle cose potrebbe cambiare anche la solita domenica. La domenica. Che è come una piccola estate. Anche quando fuori non ci sono gradi e la neve ormai è diventata ghiaccio. Anche quando decido di lasciarmi sopraffare dalle intemperie e stravolgo metà della solita giornata.

    Eppure ieri non era così.
    Piuttosto era ::= rischiare [con] ((una | la) vita){2,2}; [?]

    Atto II.

    È la fottuta sensazione di aver calpestato un feto sotto la neve.
    Resisterà, ma forse crescerà deforme.
    Colpa mia, non d’Iddìo.

    There’ll be something missing.
    Now that you found it, it’s gone.
    Now that you feel it, you don’t.
    It’s gone forever.

    […]

    You’ll go to Hell, for what your dirty mind is thinking.

    (Radiohead, Nude, In Rainbows, 2007)

    Atto I.

    Ero un bambino.

    C’era una luce così strana, riflessa su un interminabile manto bianco. Una volta ero su un aereo che aveva deciso di stagliarsi oltre le nuvole basse. Viste da lassù non son più grigie e tristi, sono una vallata bianca, il paradiso. Il piccolo paradiso ora era sceso qui, di fronte a casa mia. Allora ne ho preso un piccolo pezzo, soffice, e l’ho lanciato in aria. Si è sfaldato in mille piccolissimi veli, che si sono uniti a quelle altre centinaia di piccolissimi veli che esitavano a poggiarsi su di me o scivolar via.

    Poi ho preso un altro pezzo e l’ho stretto nella mano. Forte. Morbido e gommoso fra le dita, tira un morso, mastica e sputa. E avrei continuato così, sentendo un leggero scrocchiare sotto i miei passi, buttandomi all’indietro per sprofondare come in quei prati d’erba soffice e altissima.

    E poi sono andato.
    E il bianco lasciava il posto a un marrone fangoso.
    Che lasciava il posto all’asfalto ghiacciato.

    E camminavo a tentoni, pestando forte, come se volessi impormi sul suolo; oppure, non appena potevo, mi rifugiavo nel rassicurante candore che restava, a sprazzi, un po’ ovunque. E continuavo a guardare, con un sorriso idiota, i rami che avrei presto scosso, i tetti delle auto su cui avrei impresso la mia mano, le scale su cui avrei poggiato il mio piede giusto per lasciare un’unica orma. Insieme a quella di altre centinaia di orme di umani, di cani, di gatti, di copertoni e tavoli. Sì, tavoli. Una piccola tavola mezza innevata sulla la quale mangiare un kebab fatto alla buona, e disperdere il tempo e il calore in una piacevole chiacchierata.

    E poi andrà via.
    E poi tornerà.

    Atto finale.

    Perché ti ostini a riprovarci con quelle canzoni
    a cui hai dato un coltello in mano
    e l’ordine implicito di pugnalarti all’improvviso?

  • In den grünen Bergen.

    C’è questo piccolo gomitolo, dai fili sottili. Lo giri e lo rigiri, lo lasci un attimo sul tavolo e il giorno dopo lo riprendi. Ti dici che, dannazione, ci sarà pure un inizio. E poi, una sera, bevendo un sorso di soffice [schiuma di] Weiße, ti accorgi che il bandolo è proprio lì. Proprio lì, ma eri così distratto da non accorgertene.

    Ma ci pensa zio (bella zio!) a risolvere tutti i problemi. Degli altri. Perché è più semplice e non ti fa pensare ai propri. Ma forse mamma e papà non divorzieranno come tutti gli altri. È una piccola goccia lanciata contro un vetro, un’innocua bomba a grappolo che evapora via con poco.

    E, piuttosto che questa foto, ne adorerei ben più un’altra, e un’altra ancora.

    Piccolo passo senza bastone.
    Piccola destinazione.

  • Corcovado.

    Ho lasciato dei segni su quel libro, impressi con tratto grave, imponenti come la mia presenza.
    Per lasciarla lì, imprigionata, spero, una volta per tutte.

    Um cantinho, um violão, este amor, uma canção, pra fazer feliz a quem se ama. Muita calma pra pensar, e ter tempo pra sonhar. Da janela vê-se o Corcovado, o redentor, que lindo…

    (Everything But The Girl, Corcovado, orig. by Tom Jobim)

    Imbraccio una chitarra e canticchio la canzone di questo amore, per far felice la mia amata. Con molta calma per pensare, e per aver tempo di fantasticare. Dalla finestra si scorge il Corcovado, il redentore, così bello. Le sue braccia si distendono così ampie che sembra voglia abbracciarvi tutti.

    C’era, dannazione, si vedeva,
    non ti saresti azzardato mai a dire che era inaspettato.
    Eppure era come sentire quell’abbraccio per la prima volta.

    Chissà che succederà quando sarà finita l’ultima Marlboro.

  • Asperger’s.

    Ancora una volta, piccolo riccio incomunicativo. Ancora una volta.

    Ti mancano le parole quando fissi quegli occhi, eppure avresti qualcosa da dire. E quando vuoi fare un balzo in avanti, ti rendi conto troppo tardi di quanto sian solo passettini impercettibili.

    Forse è meglio così.

    Perché, d’altro canto, quando chiunque sa prestarti un’auto,
    niente può diventar più occasione di sterili pentimenti.

    Ma è il terrore, ancora così forte, di invischiarsi nell’acido, fisico, materiale, brutale, di una voglia notturna, trascinata troppo in là, troppo oltre, troppo a lungo. Questo terrore resta e tiene ben salde le caviglie, immobilizza e si rifugia ancora in un petto così materno, lontano dalla strana logica dei segnali e dei gesti cortesi così codificati.

    Qualcosa di speciale sarebbe,
    qualcosa di speciale sia.

    Con i più sentiti auguri.