Category: Maieutics

  • Modernariato.

    Cosa succederebbe se esplodesse proprio ora?

    Farebbe più o meno male di un’eiaculazione? O di una ginocchiata nel ventre? O un bacio? O forse sarebbe solo un fastidio, un continuo punzecchiare per vietarti il piacere del riposo notturno? O, al contrario, un inarrestabile indebolimento soporifero?

    Chissà allora quali odori si sarebbe capaci di sentire. Quali profumi, quali sapori. Chissà se la realtà ti apparirebbe con occhi nuovi o con gli stessi. Chissà se ci si libererebbe del fardello ingombrante delle priorità e della commiserazione, o se invece sarebbe solo un’altra maschera pronta ad aggiungersi a quella di oggi, che a sua volta ne sovrasta un’altra, e così via. Magari all’infinito.

    Magari per sempre.

    Dov’è la mia coperta?
    Difendersi da un vento gelido.
    Prima che anche il cuore raggeli.

  • Di/ver/s/amente/abile.

    Insofferenza. Singulto.

    Perché è solo una piccola goccia che cade in un piccolo lago immobile, viscoso. Le onde si propagano lentamente. Poi, di nuovo, l’immoto. Quando si può si ingaggia una persona affinché si prodighi a raccoglier gocce prima che giungano alla superficie. Raccoltene un congruo numero, le riversa a terra e ricomincia.

    Ma a volte non ne basta una. Le gocce son tante, a volte troppe, non si fa in tempo a prenderne una che dall’altra parte ne son già cadute due. Così c’è chi ne ingaggia tante, e tante ancora. A volte continuano a sfuggir gocce, o traboccano dalle bacinelle, ma va bene così. Tutto confluisce comunque nelle acque tranquille del lago, sì, ma in un modo così dolce, ovattato. Quasi indolore.

    Altre volte, invece,
    inspiegabilmente,
    qualcuno piscia sul lago.

    È questo, credo, quello che chiamiamo delusione.

  • Primeiro as senhoras.

    Sono una nuvola, che scivola leggera sospinta da venti ora impetuosi ora così delicati. Sospeso così in alto da poterti comprendere nell’insieme, contemporaneamente scorgere i dettagli, e guardare con stupore i movimenti sinuosi dei tuoi confini. I tuoi limiti. Sei troppo lontana, ormai, perché possa riconoscere quei dettagli che mi distinguano dalle altre. Tante piccole nuvole si uniscono per caso, o per fortuita coincidenza, lungo la strada, sembrando una grande, lunghissima filare. A volte mi scontro, esplode il mio tuono roboante, le mie lacrime bagnano il tuo viso, sciolgono la tua maschera leggera.

    Sono un treno. Lo ero già, non lo sono diventato di nuovo. Ma mi son ritrovato fermo alla stazione più inutile, proprio quando invece avrei dovuto correre ancor di più, verso la fermata più dolce. O al capolinea. Chissà se arriverà mai il capolinea. Di certo, una volta arrivato, non tornerò più indietro. E ho bisogno di correre, correre ancora.

    A volte mi chiedo se mi penserai. O se mi pensi. O piuttosto mi cercherai. Mi chiedo se capirai tutto questo, e se sarà troppo tardi o troppo presto. Mi chiedo cosa farai, se sceglierai o ti nasconderai, se sarai felice o perennemente inquieta, se sarai qui o te ne sarai andata. Se ti raggiungerei ancora, se ti troverei cambiata, o se ancora una volta scoprirei che è la solita stupida trovata.

    Perché ieri mi hanno raccontato per l’ennesima volta di una storia iniziata così bene e finita così male.
    E avrei voluto piangere. E urlarvi contro tutto il mio disprezzo per la delusione di cui vi rendo tuttora colpevoli. Complici. Correi.

    Mi spie[ghe]rai?
    Davvero, lo farai?

  • Leisure time.

    E dormo con la porta chiusa e la finestra spalancata ma coperto fino alle spalle, mentre sento in lontananza il tintinnìo di un collare. E allora penso che forse un collare sì, un collare no, mi sono sentito al guinzaglio e al guinzaglio mettevo e metterei ancora. Ma ora basta.

    E dormo aspettando domani con curiosità, pensando che ci sono troppe chiacchiere da scambiare, troppi appunti da ricopiare, troppe sigarette da fumare, troppo sonno eppure troppa acqua e troppa insalata nello stomaco per addormentarsi.

    E questo livido sul braccio fa ancora troppo male.

  • Du jour.

    Un anno in più scoppia con prepotenza insieme al tappo di spumante, si insinua in una scazzottata inutile, e riverbera sensazioni che vogliono essere schiacciate. Un anno in più dimentica il disagio, ma ricorda che nonostante tutto ci siamo. Ci siamo e ci saremo ancora per tanto tempo. Chissà, forse per sempre. Chissà, forse solo noi due.

    C’è poco riciclo negli eventi, molti piccoli nuovi arrivi. Alcuni sanno di noto, altri sanno di inquietudine. C’è chi ha assaggiato una bambina e incautamente si è avvelenato, c’è chi continua ad assaggiarne un’altra con metodo e una sorta di serenità. E tutti comunque aspettano. Una novità, una conferma, un bicchiere di vino o un’autoreggente. Oppure un sogno, un delirio o una scusa per cambiare.

    E tu, puoi davvero cambiare?

  • Portrait du retour de la soirée.

    Felice.

    Sì, è vero. Domani forse tutto si rivolterà contro.
    Ma è adesso. Adesso. Oggi. In questi giorni. Una sensazione difficilmente descrivibile. Neanche per esclusione. Perché non è gioia, o auto-esaltazione maniacale, e neanche contentezza, né serenità. Bisognerebbe forse aggiungere qualche termine, piuttosto che toglierlo.

    Perché si può apprezzare il reale. E si può anche rappresentarlo, al di là delle forme convenzionali. Tra l’altro sarà per questo che non riesco a digerire a sufficienza chi cerca di rappresentare una dimensione onirica, irreale, con le forme del reale (non vedete anche voi il paradosso intrinseco in questo, dopotutto?), mentre invece adoro veder presa la realtà, fatta a pezzi più o meno irriconoscibili, e quindi ricomposta assecondando la propria in/coscienza. Ma questa è un’altra storia.

    È nelle immagini da fermare in un clic, o da osservare fino a poter fantasticare come un bambino. È nel camminare in ogni dove, scriteriando lo squallore del negativo. Misurare i passi per calpestare foglie secche e, ogni volta, tirar su quel sorriso un po’ malinconico che vien da sé. Ipnotici posteriori di un’Audi A3 elaborata a modino, o un gelato anti-crépe ciocco-coccoso. Mordicchiare una pelle morbida fresca d’olio 31. Vivere ogni giorno con intensa leggerezza, immaginando con curiosità l’ora successiva, e poi il giorno, e poi la settimana, e poi ancora il mese.

    Ma, soprattutto, sapere che tutto questo può avvenire senza di te.
    Senza più bisogno di nessuno. Quasi.

    Per l’amore di sé.
    O di una tazza di cioccolata da dividere al momento giusto.

    E a quel punto probabilmente sarà grazie a Virne (che in realtà si limita a spingere delicatamente con fare materno e rassicurante) che tutto ciò che rimane finirà gelido e fragile. Così fragile che sarà poi il primo delicato cristallo di neve a farlo crollare in polveri sottili, che un vento leggero, cullandole, accompagnerà al dimenticatoio.

    Non avrò timore di trovarti.
    Perché non ti vorrò più cercare.

  • Del sapore secretato.

    Il mio piacere. La tua dannazione.
    Qui, ora.

    C’è un problema, perché dopo il risveglio dal lungo sonno qualcuno deve avermi toccato i capelli. E quindi ora c’è tutto un groviglio di sinapsi che sembra un hard disk con i settori danneggiati. Dico, una di quelle situazioni in cui le memorie ci sono, sì, ma sono così ingarbugliate ed inconcludenti che non riescono a riaffiorare in modo comprensibile, per quanto ci si sforzi. Che poi non si sa mai bene perché, c’è chi può pensare ad uno sbalzo di tensione, chi ad un urto troppo forte. Però è successo, ecco.

    E in questi casi l’unica cosa da fare è sovrascrivere. Già. Sovrastare i veli di un metatempo che sembra allontanarsi a dismisura ad ogni passo. Da qualche parte qualcuno si culla in letti sconosciuti, qualcun altro si affida a braccia donate dal caso. Io invece guardo le gocce traboccare, perdersi in mille fumi verso ogni direzione. Inspiro i dolci vapori di una piccola tisana della buonanotte, che riscalda occhi lucidi e viscere intorpidite, pizzica labbra arrossate dal freddo, culla i buoni ricordi. Lieve brivido contento.

    Domani, forse, sarà un risveglio ancora più dolce.

  • Inconnu maudit.

    Cos’è successo?

    Con rigore maldestro ti lanci contro il vetro, scivoli raschiandoti contro il muro ruvido. Vorresti correre, correre, con una mazza stretta fra le mani, stretta da far male, arrivare contemporaneamente lì, e poi lì, e nello stesso tempo in altri quattro posti, prendere tutto ciò che c’è di solido, stolido, apparente e mendace, e frantumarlo al più presto. Prima che arrivi sera. Primi che arrivi giorno. Fa lo stesso, purché lo si faccia presto. Perché è lì sotto la trama pura, o forse no.

    Cos’è successo?

    Nausea. Lancia pure segnali qualsiasi verso un destinatario inesistente. Prenditi una cazzo di nuvola tutta per te e guarda dall’alto, la vedi? Riesci a scorgerla? Ovviamente no. Torna coi piedi per terra, alza lo sguardo e scruta le stelle. La vedi? Riesci a distinguerla? Ovviamente no. Forse avresti bisogno di un telescopio più potente? O più semplicemente non credi finalmente che quello che cerchi non ci sia? Non è mai esistito. Forse esisterà.

    Cos’è successo?

    Corri, corri ancora. Che altro ti resta? Scappa via, finché sei in tempo. Credi di farcela? O forse più semplicemente, voltati un ultima volta e dagli contro, di testa. Si tratta di un rischio accettabile.

    Ma non è successo niente.
    Non succede mai niente, a conti fatti.
    Finché non gli si vien detto non può esser pensato.
    Finché non può esser pensato non può essere esistito.

    Ma qualcosa c’è, perché
    c’è il suo pensiero.
    Ed è un piccolo,
    inarrestabile
    tormento.

  • Per i miracoli ci stiamo attrezzando.

    Che strano.

    Posso decidere di smettere di mangiare.
    Di fumare come un forsennato.
    Di bere (sento mormorii di disapprovazione).
    Di scrivere, parlare, guardare.

    Posso decidere di pensare a questo o quello.
    Di suonare il basso piuttosto che fare il beatbox in delay.
    Di partire o restare.
    Di uscire o fissare il monitor rigirandomi i pollici.
    Persino di morire. O, più semplicemente, sputare in faccia alla fortuna, correndo a 140 col freno che potrebbe abbandonarmi da un momento all’altro, perché… ebbene sì, the Scooter Boy, anche in versione automobilistica, resta sempre e comunque un amante del rischio (leggasi cazzone).

    E posso decidere di fare tante e tante altre cose. Forse quasi tutto.
    Però tutto questo è davvero niente, in confronto a quello che non riesco a decidermi di fare.

    Ed è come la sensazione di conoscere una persona,
    ma non volersi poggiare a nessun ricordo.
    Conocer la desconocida.

    Εμπαίγμα.

    Se non fosse per quel maledetto scanner ora ci sarebbe un’altro post.
    Altro-paio-di-mani, perdonami e porta pazienza. Che tanto di pazienza ne hai.

  • The nobile art of the scratch.

    Pour faire le portrait d’un albatros.

    Nella terra di un Rudy sovrosannato si trincea il baluardo di un’estate che si ostina a non voler morire. Un’estate che cammina, lenta come la processione di un santo, incosciente come il normale, col suo seguito svolazzante di vanità. A volte cerco di trattenerne qualcosa per la coda, ma ben presto scivola via come se fosse d’aria.

    Ma certamente non ci si sta con le mani in mano. Anzi, ci si cerca di organizzare a piccole dosi, nell’attesa che, come tutte le cose, anche questa finisca. Per poter dire, finalmente, di essersela lasciata alle spalle.

    Medusa pietrifica.
    Il satiro sbriciola.
    Il vento spazza via.
    Il mare torbido lava.
    Il rum purifica.

    Piccola catena di smontaggio per un piccolo fuggitivo. Per fare a pezzi quei cristalli di zucchero (bada bene, non di miele), che inevitabilmente rotolano e, come una palla di neve in un cartone animato, diventano sempre più grandi, sempre più compatti.

    Arriverà presto l’inverno delle piccole vere gocce emozionali?