Quando mi chiederai se qualcosa è cambiato, ti risponderò di sì.
Guardandoti negli occhi per perdermi nei bagliori dei tuoi,
e con quel sorriso di chi vuol sentirsi pronto ad affrontare sempre un po’ di tutto.
Impagabile stadera.
Quando mi chiederai se qualcosa è cambiato, ti risponderò di sì.
Guardandoti negli occhi per perdermi nei bagliori dei tuoi,
e con quel sorriso di chi vuol sentirsi pronto ad affrontare sempre un po’ di tutto.
Impagabile stadera.
Ti ricordi quando, di nascosto, ti nascondevi sul balcone e, seduto su una sdraio piccola e freddissima, e rannicchiato sotto una coperta calda e grandissima, ti affacciavi al di là del parapetto per scrutare il mare nero lontano, il faro che lampeggiava, e le pozzanghere tormentate dalle auto in corsa?
Ti presentavano bietole e insalata verde in un modo disgustoso, adoravi separare merendine e würstel quasi a volerne carpire i segreti, e non hai mai capito perché le lacrime uscissero da sole, quando sentivi per caso Mina cantare Anche un uomo, o quando non c’era altro che una frase, una sola frase, che ti facesse male davvero.
Ora invece quel balcone è sempre lì, senza di te.
Hai scoperto che le bietole e l’insalata verde son buone quando ne hai davvero voglia.
Quella canzone di Mina resta ancora splendida.
E quella frase ti farebbe ancora male,
se non fosse che non hai più motivo di pensarla.
Storia dello scontro tra materia e antimateria.
Anacrusico di slancio in Si minore.
Un giorno le parole si scioglieranno, scivolando, come sabbia fra le dita, giù sul foglio, senza dover aspettare, ancora una volta, che vortici neri ti trascinino, mentre cerchi ristoro, all’ombra di alti, e soleggiati, cipressi.
E allora l’uro è la mia testa che spinge per uscire e non mi fa dormire, è un pugno da infrangere contro una vetrata per sentir meglio il dolore, è una tortura di cento delicatissimi spilli che si alternano sulla schiena per tormentarti senza azzardarsi a farti male.
Poi esplode.
Si acquieta.
Muore.
In attesa di rinascere,
e chiedere ancora una volta di andar via.
Un pazzo è come una rosa. Gli cambiamo nome quando ci sembra estraneo, insondabile o incomprensibile, ma il profumo resta sempre lo stesso. Ricordatelo, voi i cui discutibili metodi creano mostri senza cervello. Senza memoria. Senza cervello.
› scorrere · sfiorare · scivolare ‹
Le dita scorrono sulle corde, come la schiuma scorre nella Guinness ultrasuonata, come i copertoni che scorrono sulla tangenziale deserta, come il tuo bacio sfiora il mio sorriso, come i nervi a fior di pelle sfiorano gli altri nervi, si scontrano, per poi lasciarsi scivolare tutto addosso.
Questo a me piace, questo lo si può vivere. Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi, milioni e miliardi di tasti che non finiscono mai (e questa è la vera verità, che non finiscono mai), e quella tastiera è infinita… Se quella tastiera è infinita, su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare.
(A. Baricco, Novecento)
Una parola sola.
Ed è così che cade il primo fiocco di neve. Il ricordo del disagio. Poi ne soffi un altro, e un altro ancora. Finché non ne hai ricavato una coltre così spessa da non poterne più distinguere le parti.
È allora che senti l’impulso irresistibile di dar soluzione di continuità a questa massa informe, prendendone una parte, compattandola e donandole una forma con le proprie dita, gelide e intorpidite. Per poterla gettar via prima di dimenticarsene, prima che l’entropia si rannicchi nell’entropia, si nidifichi, attecchisca e ferisca ancora. Per poter pensare, col senno di poi, a quanto fosse futile lasciarsi infastidire da un magnetismo blando e quasi teatrale.
E devi concentrarti con tutte le forze, cazzo, con tutte le tue dannatissime forze. Per non perdere il filo. Ma è un equilibrio così sottile che basta una piccola spinta a far crollar tutto. E allora si salva il salvabile, si stende la trama incompleta, prima o poi arriverà il momento giusto per darne un’ulteriore parvenza di completezza.
Perché, è vero, spesso proprio ciò che è irritante ha, invero, una sua componente seduttiva, catalizzatrice di riflessioni confuse che premono per uscire in qualche modo. Come quando si scardina l’essenza ambigua e astratta con quell’atteggiamento pragmatico, o altrimenti witty, o altrimenti pseudo-carismatico, che mi fa piacere veder applicato ovunque. Ovunque, sì, ma non qui. Non su questo spirito.
E allora perdonami, monade, ma dovrò salvarmi. Salvarmi. Perché voglio un altro nome e un altro cognome. Perché sarebbe potuta essere ciò che non è mai stata, se non avesse reso la storia una sceneggiata. E quindi starò qui, così, bene così, nonostante la mia curiosità. E, in realtà, mai come in questi momenti c’è bisogno invece di quel cuore scaldacuore, se non fosse che per una volta, una volta sola, voglio smetterla di aggrappare i miei artigli ad un qualcosa di così delicato e ferirlo. Non più.
Pian piano tanti punti fermi svaniscono.
E altri, per fortuna, altrove nascono.
Nel tuo cammino, ricorda sempre di metter da parte una carezza da dedicare ai disillusi, un dardo contro le piovre di questa Gabbia Logica, una lama affilata per chi si promette amore eterno, essenze speciali contro le zanzare più avide.
E ancora: quando il cuore lavora da sé, tenace e alacre come sempre, e cerca di acuminare gli spigoli per quadrare l’essenza nell’esistenza, tieni sempre vivo in memoria il piccolo immenso ricordo. Il ricordo di un bacio, di una passeggiata, di una risata, di un abbraccio al riparo dal freddo, di una birra divisa imparimenti, di quell’idea di tracollo che si sperde su un morbido letto di petali color biancoverdesmeraldo.
E allora: raccogli un pugno di petali da dedicare a chi vive, a chi lascia correre i battiti senza remore, a chi da’ sollievo agli affanni, a chi pensi. A che pensi? Pensi a qualcosa di ruvido, o tagliente, che sfiori con cautela e poi allontani, senza paure. Allontanalo pure, copriti con questo manto caldo.
Così sarai pioggia d’estate,
e neve fresca d’inverno.
Curioso.
Una paura molto precisa,
crea un disagio indefinito.
Vuoto chiaro. Nuvola densa di trasparenza. O, piuttosto, a volte la sensazione di sentirsi scorrere in linea retta senz’attrito può non essere sempre piacevole. Perché a volte le mani sudano per l’emozione, e l’appiglio si fa pericolosamente scivoloso. Perché nel ripercorrere in ciclo lo stesso magnifico percorso ti scontri ancora con la paura di un tunnel così lungo da essere avvolto da un nero liquido e denso.
La chiave di lettura, forse, è la delusione.
La paura della delusione genera sfiducia, quando in sogno tornano i volti che non vuoi più guardare, quando analogia e associazione si ostinano a perpetrare il loro stupido gioco, quando il disagio sembra avere una trama così complessa da non riuscire a dipanarla.
La verità fa male quando ingenera delusione. La de-lusione scioglie e deliberatamente schernisce, si fa gioco di, prende in giro la presa in giro di se stessi a se stessi (in-ludere). In effetti, a pensarci, è un po’ come l’imbarazzo di venir preso in giro, da grande ma soprattutto da piccolo.
Piccolo.
Piccolo bimbino. E gli altri bambini ti sembrano più cattivi degli adulti. Gli adulti fanno guerre, si uccidono per poco, «inventano il denaro per comprare altri adulti»; ma ai bambini si perdona tutto. Sono il trionfo della forma sul contenuto. Più il visino appare aggraziato e innocente, più stronzo potrà liceitamente diventare. Una parola sottile, un gesto quasi inconscio, che ferisce, fa piangere.
E per un piccolo stronzo diventa tutto più semplice, quando la sua superficialità è incontrastabile grazie all’acquiescenza dei grandi o all’impotenza dei piccoli. Ma quando sei grande è diverso. Il piccolo stronzo potrà pure continuare ad essere un grande stronzo, ma impara una serie di gesti codificati, impara a progettar bene il modo in cui far male all’altro nel modo migliore, impara il dramma e lo usa per scegliere di aiutare o sfruttare il prossimo.
E io non voglio piccoli stronzi che con piccoli fiori spiegano a piccoli adulti come tendere ad una vita piccola, semplice, normale, banale. Insipida, ignava, asettica, sedimentosa, immobile. Tesi. Tesi. Tesi.
Di piccola c’è adesso solo la dolcezza che avevamo comunque già perso.
Questa, a suo modo, è in effetti un’altra piccola delusione.
E ora?
Nulla.
La paura molto precisa,
continua a creare un disagio indefinito.
Sono movimenti isocroni, coincidenze che scorrono e portano via le paure, un cuore che improvvisamente pulsa in un unico fortissimo battito. Non avrò più paura. Parole latrici di ricordi passati che non saranno più stati. Non saranno mai esistiti.
Se potessi partirei oggi stesso. Ovunque. Magari per sempre. Mi insegneresti tutto quello che c’è da imparare, e lasceremmo alle spalle queste radici marce che ci tengono legati qui. Quelle radici fatte di amori perduti e amori morbosi, di noie e fastidi, sguardi indefiniti e parole che si sperdono in mille altre.
Quelle sono radici ispessite dall’idea troppo fertile che ci porta ad essere ciò che siamo stati. Idea certamente imprescindibile, ma che – riesci a vederlo? – molti, troppi patologizzano pateticamente. E, anziché continuare ad essere una mera essenza, la semplice complice di una sintesi, fanno del loro esser stati ciò che vorranno essere per sempre. Perché vorranno essere sempre tesi. O sempre antitesi. Senza nessun progresso, nessun cambiamento.
Eppure si cambia. Ci si fa male, si cicatrizza e poi qualcosa cambia. Cambia continuamente quello che ci circonda, e cambiamo anche noi.
Purché non cambi quell’essenza, quella che ci ha donato un giorno la coscienza di sé.
Altrimenti non si è più sé.
Se la tesi è l’istinto e l’antitesi è la ragione, la sintesi è l’intuizione che dona le sue motivazioni a posteriori. Il gusto acido di un motto salace nato ormai già vecchio, il brivido dell’empirìa che turba il sonno notturno, il sapore dolce che si trasforma in alitosi da tartaro.
Il vino che attecchisce alle labbra secche e non va più via, quando pensi che molto probabilmente non è quella la tua strada. Non sarà mai quello che sarai. Ma chissà poi cosa sarai mai, se prosegui per triangolazioni pur non ricordando mai il θ giusto da calcolare. Un lungo procedere a tentoni, sempre vittima del timore costante di non capir subito quando è necessario corregger la rotta.
Un po’ come giocare a biliardo. Un gioco affascinante, davvero. Varianti infinite per una traiettoria che, diciamocela, quando è giusta lo è solo per culo. A volte basterebbe una pulsazione del cuore fuori sincrono per scombinare tutto. Ci ho provato solo tre volte in tutta la mia vita. Ma una volta mi dissero che ero troppo piccolo. Un’altra volta vidi sbocciare un amore destinato all’irreparabile. La volta dopo era il solito disastroso trascinarsi.
Spensierare; poter giocare.