Category: Maieutics

  • Portrait d’un oiseau.

    Sono plasma, contenuto addensato, rabbia fàtica e materica che erutta come vomito acido sull’epidermide.
    Poi sono contenitore, scatola vuota, la pelle non regge, il freddo mi inghiotte.

    Tremo. Non tremo. Ho paura.

  • Doubt dub.

    Il vero problema è che vedo tutto come estremamente velleitario, e la verità non è altro che il rovescio della medaglia che prendiamo per vero, per induzione, confrontando l’ignota novità con i rassicuranti precedenti.

    In sostanza, quello che riteniamo vero è quello che riteniamo accettabile, coerente con quello che sappiamo già essere vero. O che, per meglio dire, abbiamo deciso che era vero quando, a sua volta, l’abbiamo ritenuto coerente con quello che sapevamo già essere vero. E via dicendo.

    Quindi c’è una sorta di causa prima, di prima verità che confrontiamo per aggiungerne altre.

    Ma se quello che sappiamo già, questa verità prima, non fosse coerente? Riusciremmo mai a capirlo davvero? Forse l’abbiamo presa per vera così dogmaticamente solo per fiducia? E quindi dovremmo continuare a prendere per assunto che sia vero o falso? Oppure ha senso cercare risposte? E se non ci fossero?

  • A Kreb’s cycle.

    Ma una spalla,
    un sorriso felice,
    [veramente felice,]
    sono una droga più forte.

    Cerco biglie,
    interferenze di rumore rosa,
    per rompere il tono,
    per alterare lo spazio tempo.

    Per sentirmi vivo.

  • Un tempo avrei cazzeggiato su un BBS.

    Tipo Metro Olografix.

    Ma sono passati anni, lustri e decenni,
    il tempo è scivolato fra le mani come sabbia al vento
    e io provavo a stringere forte le mani
    e facevano sempre più male.

    Ho un debito con te
    che salderò a tempo debito.

  • Portrait.

    Forse oggi piove.
    Sento l’odore delle nuvole.
    Mi affaccio alla finestra e c’è il sole.

    Ti odio.
    Perché un tempo avresti odiato tutto questo come me.
    E ora invece sei solo un odioso riflesso di un odio di riflesso.

  • Banlieues’ cyst.

    E va bene, andiamo via. Non dimenticare una sola lacrima, né un pensiero, né una rotaia. Non lasciar nulla perché questa città non merita nessun souvenir. Prendi tutto e corriamo, perché il tempo ci inghiotte. Prendi tutto e corriamo, perché il tempo ci inghiotta.

    Prima o poi ci dimenticheremo chi siamo e dove eravamo,
    vestiremo abiti nuovi e maschere irriconoscibili.
    Saremo stranieri in terra straniera.
    Ci sputeranno addosso,
    ci guarderanno con sospetto,
    vorranno farci andar via.
    E noi andremo via.
    Saremo stranieri in terra natìa.
    Ci cammineranno addosso,
    ci guarderanno con livore,
    vorranno tenerci prigionieri.

    E alla fine ci stancheremo di correre in tondo nella ruota dei ricorsi, e accorceremo il passo, prima di fermarci. Ma saremo così fottutamente ottimisti, o presuntuosi, da pensare che, in fondo, saremo ancora dei vasi di Pandora.

  • Abèreabàralbèrealbàr.

    Se mi mettessi con me stesso ci lasceremmo dopo un anno.
    Con atroci sofferenze.

    Il compagno perfetto esiste,
    ed è in un luogo delle cinque dimensioni
    che non abbiamo mai raggiunto
    o capito.

    Tuttavia esistono numerosi compagni perfettibili, che ci piace chiamare perfetti fintanto che riusciamo a plasmarci sulla loro superficie come un velo di seta. In cambio, come cagnolini affettuosi, ci offrono in dono ascolto, lusinghe o soddisfazioni, finanto che riescono a plasmarsi sulla nostra superficie come un velo di margarina.

  • Come to daddy.

    Con. La testa. In un. Acquario. Soppesando. Le. Parole. Una pausa. Ogni. Non più di. Cinque sillabe. Conpocheccezioni.

    Con la testa, come se fossi in un acquario, soppesando le parole. Una pausa ogni 10 secondi. Perdifiato. Fiato rotto. Rompicapo.

    Con la testa che rotola e guarda tutto e non guarda niente e tocca e non sente e parla e non sente e scrive e non sente.

    Con la testa come quando hai malditesta. E il dolore diventa fastidio, e poi ancora fastidio, e poi dolore, e poi fastidio. E, diosanto, non mi devi rompere i coglioni. E, diosanto, non mi devi interrompere mentre sto pensando, e strapensando, e ripensando, e tutto mi sembra acquoso, e mi fa quasi schifo ogni contatto umano, e mi sento come quelli di quei film che vanno nei night club guardano le donnine nude e le riguardano e bevono e le riguardano e non gli passa nemmeno un attimo in testa di toccare o di scopare o almeno di ammazzarsi di seghe niente di niente completamente atarattico o forse in realtà un po’ annoiato dalla banalità del bene e la banalità del male ma soprattutto il bene. E, diosanto, non mi far stare male. Mi fa già male. Qui, vedi? No, non qui, ma lì, in quella gabbia. Un dolore sopportabile ma ininterrotto e variabile, di quelli che con tutti gli sforzi che puoi fare per distrarti alla fine ti distrae, toglie spazio a qualsiasi messa a fuoco, di quelli che puoi provare solo ad inserire una qualche specie di pilota automatico, e a quel punto buona fortuna, buona fortuna davvero.

    Con la testa che forse non vuole essere una testa.

  • Prostituzione multicanale come panacea dei rapporti personali, aka: testing Separation of Concerns through quasi-asemantic HTML.

    Si comincia da qui. Si scruta a fondo la forma per cercare una piccola o grande finestra verso il contenuto.

    Un qualche dettaglio, attraente, in qualche maniera sensuale, fa aumentare esponenzialmente la curiosità, la voglia di sentirsi in qualche modo un tantino sopra gli altri, quegli altri che questa curiosità non l’hanno proprio avuta, oppure era troppo piccola per darle ascolto.

    E il tuo cuore irrimediabilmente romantico legge al posto tuo, analizza la forma, la interpreta, scovando significati che di certo altri non hanno neppure immaginato. Finché non giungi alla conclusione che ci sarà sicuramente qualcosa di speciale, che è nascosto, che non si trova, che non soddisfa appieno quella perversione soft-voyeuristica che è a tratti persino generazionale.

    Ti fai coraggio. Vinci la timidezza. Bussi alla piccola o grande finestra. Speri che il contenuto venga ad aprire. Beh, o quantomeno che si affacci, insomma.

    Si affaccia. Finalmente. A volte hai la fortuna di capire subito se quello che adesso hai davanti è il contenuto o, piuttosto, un’altra forma, con tanto di delega scritta e mandato ad operare.

    Il problema di queste forme è che, a volte, non ti fanno mai arrivare al contenuto. Ti illudono di essere arrivati alla sostanza, alla materia prima, ma in realtà è un trucco. Meschino. Altre volte, invece, il contenuto arriva davvero, prima o poi, e scopri che è davvero deludente. Non che sia necessariamente più noioso, o troppo difficile per i nostri gusti. Semplicemente molto diverso da come te lo immaginavi quando avevi ancora quella curiosità un po’ entusiasta. E meno male, perché altrimenti cercheresti di allinearlo il più possibile a quella tua idea di lui.

    Poi (deo gratias) ti accorgi che è tutto inutile.

    A volte te ne accorgi solo dopo un po’.
    A volte un po’ tardi.
    Te ne sei accorto o no?

    Poi però ci riprovi. Non demordi.
    Perché senti che è la strada giusta.
    Più te lo ripeti e più sarai convinto.
    Garantito.

    (e che culo.)

    (photo: play with me by s~revenge)

  • Voglio uscire.

    Prendo una di quelle palline di caucciù e la scaravento a terra con tutta la forza.

    Schizza in alto,
    corre lontano,
    segue scie imprevedibili.

    Osserva gli oggetti da ogni angolazione, e senza avere il tempo di rifletterci si ritrova davanti ad un’altra piccola curiosità. Le piccole cose la emozionano, le grandi cose la incuriosiscono. Corre, cerca ancora un’altra sfida alla gravità.

    Poi la gravità vince.
    Vinta, rotola con le ultime forze,
    e spera di essere raccolta ancora,
    per liberarsi un’altra volta.