Category: Maieutics

  • Remedios.

    Il rimedio è questo. Ancora una volta. O altrimenti non pensare. Ma non riesco a non pensare. Che cosa mostruosa non pensare. E che cosa mostruosa pensare troppo.

    E che cosa mostruosa volere sempre più.
    Molto più di quanto quanto sia possibile.

    Io e te siamo uguali. Fatte le dovute proporzioni, tolte le dovute maschere, e smussati alcuni dettagli. Io e te siamo fottutamente uguali. Forse lo eravamo già da tempo, forse lo siamo diventati insieme. Scivolavamo e inciampiavamo negli errori, ci rialziavamo, studiavamo il passo successivo con cura. Per poi inciampare un'altra volta.

    Fottutamente uguali.
    Fatta un'unica eccezione.
    Io sono più forte.
    Oppure no, più insicuro.
    O forse solo più curioso.
    O velenoso.

    O magari, semplicemente, solo più inquieto.

    Ma adesso un po' meno.

  • Musím spát.

    Dormire.
    E chi dorme?

    C'è ancora tanto da fare. Tanto da guardare. Da leggere. Da capire. Arrivi a un certo punto e ti rendi conto che hai dato per scontato che quello che hai sia nato quando solo hai cominciato a viverlo. Ma quello che vivi viveva anche quando non ne conoscevi l'esistenza (sì, alcuni filosofi mi sputerebbero in un occhio per quest'affermazione così avventata… ma tanto son morti, fanculo).

    C'è ancora tanto da lottare. Per ottenere qualcosa che, in fondo, non si sa neanche tanto bene cos'è. Un'ambizione, vaga e imprecisa, che non appena si riesce a toccare subito scivola via e ti chiede di correre un po' più in là. Uno sforzo in più, fra le risa frustranti.

    C'è ancora tanto da annoiarsi. O divertirsi, ringraziando il cielo di non sentire tutto quello che ero così lontano.

    Presto arriverà una carezza.
    Quella vera.
    E dormirò.

  • Demócrito de Abdera se arrancó los ojos para pensar.

    Dammi qualcosa di violento.
    Dammi un'opportunità per distruggere tutto.
    Qui e ora.
    Come allora, ancora.

    Vago per improbabili strade in cui fermo volti sconosciuti e indistinguibili, biascico qualcosa, aspetto una risposta che so già essere incomprensibile. Allora scavo a mani nude nell'asfalto, finché le unghie lasciano lo spazio a grumi di sangue sulla carne viva, e poi scavo ancora, e ancora.

    Mi infilo in un tunnel creato da me. Stretto. Profondo. Asfissiante. Sono stremato. Le braccia non si muovono più. Non posso più andare avanti. Non posso più tornare indietro. Sono bloccato in fondo a qualcosa che va in nessun luogo. Mi manca il respiro. Sento la terra arida. Entra nei polmoni. Raschia la gola.

    Alla fine di tutto questo non resterà più niente. Non resterà più luce. Non resterà più alcuna certezza. Non resterà più alcuna sensazione. Lo so già. Lo sapevo già da prima.

    Ma domani ricomincio.

  • Řehoř řeže dříví z dřinu, dva tři řizy za vteřinu.

    Sì. Un tempo tutto sembrava più bello. Facile. Felice.
    Ma forse, in realtà, tutto sembra più bello un tempo.

    Cerco di non nutrirmi mai di ricordi. Non mi fido. Si evolvono continuamente, destrutturandosi e ricomponendosi in modi imprevedibili e casuali. Titillano gangli diversi ad ogni occasione. E la generale devozione, totalmente immeritata, che ostinatamente gli si continua a garantire, li rende forti della schiavitù a cui ci sottopongono. Ci fidiamo così tanto dei nostri ricordi, e delle sensazioni che ci procurano, da sentircene in balìa.

    Una fregatura perfetta.
    Perfettamente oscena.

  • Respawn/2.

    – Allora.
    – Eh, allora.
    – Funziona così: quando una cosa si rompe, la si riaggiusta.
    – Essì.
    – Quando cade, la si prende da terra, gli si dà una spolverata, e la si rimette a posto.
    – E se c'è una scheggia?
    – Fa niente.
    – Cadrà di nuovo.
    – Pazienza. Succede. Succede sempre. Anche noi cadiamo. A volte ci rompiamo pure. Ma ti verrebbe mai in testa di buttarti via e prendere un altro pezzo?
    – A dir la verità a volte sì, ci pensiamo.
    – E quindi? Non potremmo farlo di certo. E a quel punto che si fa? O ci crucciamo a vita della nostra sfortuna (o della nostra maldestria) oppure proviamo e riproviamo a non rifare più errori la prossima volta.
    – E come si fa a correggere l'errore se non sai mai che errori hai fatto?
    – Ma che dici.
    – Eh, è vero e lo sai benissimo.
    – Vabbè sì, e con questo? Se vuoi scoprire l'errore ti devi mettere di buzzo buono e ragionare, sragionare, debellare demoni e angeli, spazzare nevi perenni finché le mani non sentono neanche più il freddo e il dolore… e fare altri errori.
    – Ah beh, certo.
    – Certo sì, tanto di errori ne si fanno sempre.
    – E quindi?
    – E quindi un errore…
    – Tira l'altro.
    – Non è così.
    – Lo è. Passiamo mezza vita a fare errori e mezza a correggerli. Pianifichiamo accuratamente il prossimo passo chiamando a rapporto tutti gli errori passati. Sono lì gli errori, in rassegna, impettiti e orgogliosi della loro stronzaggine. Ti guardano con aria di sufficienza, come a voler dire "tanto stasera torniamo". E – zac! – ti ritrovi non solo di fronte a quelli vecchi, ma anche quelli nuovi, tutti pronti a sconvolgerti le budella come se ti prendessero a cazzotti. Non c'è modo di evitare gli errori. Servono a ricordarti come farne altri.

  • Parade.

    Quando ci guardiamo negli occhi siamo due corpi.
    Premiamo con tutte le nostre forze contro una gabbia di vetro,
    quella dei non puoi, non devi, non è giusto,
    quella dei fai così per garantirti una vita virtuosa,
    per te e per gli altri.

    E vogliamo uscire da qui, anche se abbiamo lasciato che gli anni la indurissero,
    la ispessissero con strati e strati di abitudine e rassegnazione,
    finché non ci siamo resi conto che non ci convinceva più
    quando chiedevamo perché? e ci rispondevano perché sì,
    perché è tutti fanno così,
    perché è normale.
    Normale?

    Sembriamo così diversi, nelle nostre gabbie.
    E allora chiudiamo gli occhi,
    ci sentiamo, ci percepiamo.
    E ci rendiamo conto che in realtà siamo così simili,
    due sfere luminose allo stesso modo,
    che vagano in un vuoto infinito,
    cercandosi,
    avvicinandosi,
    abbracciandosi.

    E in questo abbraccio ci perdiamo.
    Solo per un momento.

  • Num doce balanço.

    Se senti il mio respiro, per favore, respira. Tienimi sul palmo delle tue mani e guardami evaporare. Diventerò pelle, occhi, capelli, labbra. E allora dovrai stringermi forte, anche se scivolerò fra le braccia. Non sarò sabbia impalpabile fra le dita che si scioglie indifferente nel mare. Sarò ghiaia, che farà sempre male quando camminerai affondando i piedi nella spiaggia calda. E allora, forse, cercherai di prendere tutti i pezzi, prima che finiscano più in fondo, e quando saranno tutti, quasi tutti, proverai ad incollarli tra loro. Ancora una volta. E ancora una volta non funzionerà. Ma ancora una volta proverò a tenermi stretto, per diventare una sola cosa con me. E quando vorrai scaldarmi, fra le tue mani, allora, solo allora, diventerò una sola cosa con te.

  • Kecy.

    Al buio si accendono pupille, intorno, si dilatano.
    La notte ha un occhio solo, appeso in ombra.

    (Quintorigo, Illune)

    La neve si scioglie, e così anche alberi di cartone, con le sue foglie di plastica e radici di cenere.

    Un tempo era più facile.

    Le immagini erano bambini che si rincorrevano, ruzzolando a perdifiato giù per la via, poi si lanciavano sull'erba, alta e soffice come una nuvola, e si tenevano abbracciati stretti guardandosi negli occhi. A volte, all'improvviso, sentivano voci dietro gli alberi, in fondo. Lì c'erano ancora altre immagini, tanti altri piccoli ometti che non aspettavano altro di recitare a squarciagola, orgogliosi, la propria canzone. Quella che hanno passato una vita intera ad imparare.

    Una volta i ricordi erano confusi, annebbiati. Era più facile lasciare che si confondessero, lasciare che i demoni fornicassero coi propri simili, aspettare che l'amplesso li rendesse esausti, per poi ucciderli nel momento più inaspettato, imprigionandoli a vita fra le righe. Un attimo di catarsi, prima di ripartire.

    Ora tutto è già evidente, nulla è ancora chiaro.
    Eserciti di demoni divorano bambini già troppo adulti.
    E non c'è più nulla da spiegare.

  • Exile.

    Apro gli occhi. Crepuscolo. Spigolo. Di metallo. Scuro. Metto a fuoco. Il vuoto. Porta. Legno. Motivi irregolari. Sposto la visuale a destra. Soffitto. Bianco. Riflesso della finestra. Spiovente. Aperta. Sposto la visuale a sinistra. Foglie sul pavimento. Secche. Ancora. Freddo. Sposto la visuale in basso. Coperta. Ai piedi. Rimbocco. La coperta sale con un movimento fragoroso. Sembra. Niente più che un fruscio. Chiudo gli occhi.

    Apro gli occhi. Tramonto. Spigolo. Di legno. Scuro. Metto a fuoco. Il vuoto. TV accesa. Un canale a caso. Sposto la visuale in alto. Finestra. Aperta. Rumori. Lavori. Sposto la visuale in basso. Porta. Aperta. Freddo. Coperta. Alla vita. Rimbocco. La coperta sale con un movimento rassegnato. Sembra. Niente più che un fruscio. Chiudo gli occhi.

    Apro gli occhi. Non so l’ora. Giornata grigia. Sposto la visuale in alto. Orologio. Le sette. Sposto la visuale a destra. Calore. Mi giro. Ci sei. Mi rannicchio. Mi accogli. Mi addormento. Finalmente.

  • Atmosfera.

    Due più due non fa quattro.
    Neanche cinque.

    Fa 42,
    diviso per il numero di amori perduti,
    moltiplicato per il numero di amori mai realizzati,
    meno il numero di esperienze mai vissute,
    elevato all’enorme numero di ricorsi.

    La vita è sopravvalutata.

    L’universo è incline all’implosione.