Category: Maieutics

  • Edera.

    Già. Un’edera.

    Presenza confortevole.
    Poi chiarificante.
    Quindi rassicurante.
    Definitivamente tergente.
    E inaspettatamente rinforzante.

    Tra l’altro, avete mai provato a staccare una pianta rampicante dal muro? Di quelle che formano delle specie di ventosine che si appiccicano alle pareti, intendo.

    Beh io lo facevo da piccolo, e mi piaceva vedere come, in alcuni punti, la pianta avesse attecchito così tanto da rassegnarsi ad abbandonare le ventosine (avranno pure un nome più decente da qualche parte) sulla superficie. E quelle poi non le staccavi mica.
    Altre volte invece la pianta era così saldamente ancorata al muro da non riuscire neanche per sogno a strapparle via. Wow. Però preferivo vedere le ventosine sul muro.

    Ora, certo, ne son passati di anni da allora, e io non so se continuerei ad ammirare com’è brava ad attecchire una pianta rampicante o se preferirei strapparla dal muro per cercarne le tracce.

    Fatto sta che dovrò sentirmi pur protetto da qualcuno.
    E, finito il giorno senza tempo e senza spazio, resta la solita consapevolezza che presto o tardi questo qualcuno sarò io. Dopodiché sarò pronto. Non so per cosa, ma sarò comunque pronto.

    E questo, certo, lo sapevo già.
    Ma ora riesco ad accettarlo un po’ più serenamente.

  • ‘E ritte niente.

    Posso sognare a bocca aperta, lasciare che il vento lanci spilli sottili dietro la schiena.
    Aprire le mie narici da novembre a febbraio, e non respirare nulla.

    Prego, entrate. Prendono a martellate le sinapsi per ricordarmi cose che non sono mai esistite, quindi con ago e filo e lavoro opportunamente causcasuale staccano le connessioni neurali e li ricollegano, incrociandoli in modo irritante, in altre porte. Associazioni assolutamente fuori luogo.

    Sono un feto coccolato nel calore di un utero materno.
    Uno strato di cotone e uno strato di lana.

    Che c’è?
    Niente.
    Ma perdi pezzi.
    Briciole.
    Ma che briciole, son pezzi interi.
    Sì, è un po’ di me che va via.
    Eppure in testa ne vedo altri.
    Allora forse dovrei staccarmi la testa.

    Mi dia un buon anti… anti… antiforfora.
    Orsù.

  • Il bianconiglio.

    Il bianconiglio è, in questo sistema, certamente l’elemento più insidioso della storia. Il suo comportamento si basa su brevi interventi, intensi e spesso involontari ma non per questo meno efficaci.

    È capace, a titolo d’esempio, di produrre suoni a bassa frequenza degni di un precisissimo LFO (la cui sigla sta, appunto, per Low Frequency Oscillator). Riesce anche, volendo, a distruggere un vetro già di per sé molto fragile.

    Insomma, sì. Ha rotto un vetro fragile con un suono.

    Cerbero. Che palle. Ma capitelo: già sta un po’ girato di suo, senza contare che sta lì come un babbione a far la guardia; e poi sappiamo bene che ha anche il sonno leggero ed è molto indisponente.

    And if you go chasing rabbits, and you know you’re going to fall,
    Tell ’em a hookah-smoking caterpillar has given you the call.

    (Jefferson Airplane, White Rabbit)

    Ma i pensieri sono troppo sopiti per potersi organizzare.
    E quando è così si sa che non c’è molto spazio per me.
    E allora le luci continuano a spegnersi e riaccendersi.
    Troppo. Troppo veloce. Troppo intenso. Più tempo, più tempo ancora.

    Magari una volta non era così.

    E io provo ancora ad inseguire il bianco.
    Ma sono da solo.
    Col timore di incontrare un altro bianconiglio.

  • L’insistenza; violenza.

    Forse mi sbaglio, ma non c’era nulla di dolce in questo.

    Squallido. Come quell’altra volta, che non mi appartiene, per fortuna, neanche per una molecola.

    Ma un giorno elettrico comincia quando si passa il badge nel senso opposto e, uscendo, nonostante una polvere porpora ti accarezzi dolcemente il viso e il suo odore sia ammaliante come vaniglia, vedi nuvole torbide ammorbare il cielo color grigio-lenzuola-matrimoniali-appena-lavate-gocciolanti.

    E spero al più presto di potermi circondare di muri diversi, e renderli un piccolo e amabile focolare, per godermi il silenzio dei respiri che decido io. E ho paura. Paura da morire. Paura di fallare, fallire, tornare con la coda tra le gambe. Non è più il momento, cazzo, non è più il momento.

    Ultimi movimenti. Frammenti più feroci.

    Appeso a un quarto di scalata, senti che forse c’è qualcosa che va più in fretta, e non riesci a stare al passo. O forse in realtà è il contrario, e se è così sarebbe ancora più grave. Significherebbe che stai desiderando tutto senza capire che in realtà non ti resterà presto più niente.

  • Voce in controfase.

    Fase. Dalla seconda alla terza fase.

    Messaggio subliminale di quattro minuti, con un vago LFO che alterna ipnoticamente la risonanza. «Verità innocue congelano le labbra… la gente lucida non pensa più a niente».

    E poi la neve si scioglie. La neve si scioglie. E, una volta asciutto, tornerò ad essere contento. No, non sarò contento. Sarò felice. Certe cose pesano, ma non fanno altro che scolpire un cuore di piombo. Cuore. Di piombo.

    A volte lei cambia pelle, e lo confessa a me continuamente. Lei esplora l’ordine diffuso da me, ed ora è chiaro che la carie più viva sei solo tu. Demone, demone, come cadi bene, un bolide! Diamine, demone, l’ansia divora.

    A volte compaiono streghe… La psicoanalisi non funziona più come io vorrei. La serpe non cambia pelle. E non è vero che la carie più viva resti solo tu.

    (Verdena, Glamodrama, Il Suicidio dei Samurai)

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    Source: Un sistema periodico per immagini

  • Wherever my soul mate would be.

    Sweetly slides away, in a rainy vanilla sky, with thoughts just tainted with shiny violet, purple and black.

    Sensations softly float far distant over our head, trying to reach the top with a slow flight. Then they suddenly fall down. With a crash.

    A new flavour for everything. Progressively. Softly. Sweetly.

  • Breve saggio a quattro mani.

    Caso arriva e sconvolge travolge impasta nuova forma per ogni cosa, un Happy Tree Friends con singolare accompagnamento e sottofondo costante di ceci su cui inginocchiarsi per i dabbene.

    C’è un ordine nuovo che guarda con miopia e occhiali in bilico la definita indefinitezza degli eventi. Anarchia, mostra agli occhi obnubilati dalle ormai troppe gabbie logiche come Raab e la sua discendenza possano instillare nell’uomo la rivelazione di una nuova Verità. La verità delle mille verità. Anarchia, i tuoi adepti credono nella tua Utopia. Anarchia, apri loro la porta.

    plic plic plic
    Tintinnio della pioggia incastònati nelle cellette del non rumore. Incastònati come una composizione sul pentagramma, una composizione di fotogrammi per il diagramma di questa composizione a quattro mani. Prendi questo foglio ed avvolgilo sul tuo petto, eroicamente nella stanza con vista sull’abisso, intriso di crasi e troncamenti, ma più di tutto del candore della notte che dilaga ed anima le statue, prendono vita i corpi fragili e le non verità giù nell’abisso, giù giù giù, finché non le guarderò scivolare nell’aria, volteggiare e crollare con uno schianto, protetta dal parapetto        lieve brivido contento.

    Abbandonatevi alla vostra latente concupiscienza, o francescanisti a puntate, e scoprirete che il cavallo nero saprà guidarvi meglio di quello bianco. Ricordate i tempi della vostra adolescenza, quando arrivò un demone che ha preteso insegnarvi il mestiere, e come furono sublimi queste apocalissi. «Sono colui che provoca e ritira il sasso. Sono la posologia della nicotina. Sono il vigliacco.»

    Pure frigid waters from these eyes that always miss you
    Nothing but violence from my empty gun
    I’m using silver to light up these blackheart faces
    blinding your fingers with my skin that burns for you.

    Qualcuno mi ha detto che ad offesa si risponde con offesa. Non credo in questo. Qualcuno mi ha detto che alle mani si risponde con mani. Ed io non posso convenire. Qualcuno mi sta occludendo lo spazio, apriti porta e squarcia l’eccentricità della stanza, distruggi le difese che non servono, zittisci i vigliacchi e gli ottusi. Ho in cuore un bene molto più grande.

    Siamo nell’angolo più caldo di un pianeta rotondo.
    Hai il coraggio di accettare i tuoi impulsi, il coraggio di seguirmi?
    C’è una barca pronta dietro l’altra pagina.
  • Volevo scrivere solo un commento.

    Ma poi mi è piaciuto e allora l’ho chiamato in disparte.

    Io: Figliolo, tu sarai un post.
    Lui: Davvero papà?
    Io: Sì, però non dirlo in giro che son tuo padre, se no dovrò pagare gli alimenti al nonno!
    Lui: E chi è il nonno?
    Narratore: (fuori campo) Lo sapremo nella prossima puntata!

    Perdonatemi, ma i più assidui avranno intuito i motivi di momenti di vago delirio di tal fattura… A proposito, crepi a tutti… e povero lupo!

    Ok basta.
    Il commento. Sì.
    Comincia con un: Ma sì, sì.

    È arrivato l’autunno che porta via il caldo, le spiagge assolate e piene di gente, le vacanze d’ogni sorta rigorosamente all’avventura e le avventure d’ogni sorta rigorosamente in vacanza.

    E, come ogni volta, si trascina via qualche strascico più o meno importante. A volte, certo, fondamentale.

    Allora sinceramente saluto con piacere l’anticamera dell’inverno. I primi maglioni e coperte sotto cui indugiare la mattina o rifugiarsi la sera. Un abbraccio e un bacio sulla punta del naso per riscaldarsi. Bere una cioccolata calda e alitare nella tazza per spanderne i vapori sul viso. Un viso caldo e all’aroma di cacao, e labbra morbide dalle quali leccare le ultime gocce.

    E poi, ancora, correre in bilico su un marciapiede di mezzo metro per sfuggire alla pioggia, e tornare a casa per estirpare un po’ d’umidiccio alle robe. E magari, chissà, un bel caminetto davanti al quale potersi sedere, con un Baileys stretto in mano e maglioni extra-large. Due teste su una sola spalla.

    Oppure scaldarsi con del vino rigorosamente locale, discorsi che si fanno guidare dal fumo agonizzante delle innumerevoli sigarette, e un giro nei Sassi.

  • 92 minuti di blackout. 40 secondi di niente.

    Il papa parla di nuovo ordine mondiale, di una Chiesa per cui morire, nonché di un’unica e sola vera Ragione.

    Previsione apocalittiche affiancano alla prossima morte del Sole il collasso del Sistema Economico Mondiale entro il 2012. Senza contare poi il fatto che rimarremo senza terra a causa del riscaldamento globale, e senza considerare deduzioni che portano a prevedere una futura Terza Guerra Mondiale fra Stati Uniti e Cina, così come altri catastrofici anatemi.

    Probabilmente aveva ragione Malthus, siamo troppi rispetto alle risorse, e quindi ben vengano catastrofi naturali e ben-poco-naturali per sfollare un po’ (a meno di accettare come soluzione la castità… stiamo parlando pur sempre di un prelato…).

    Io intanto continuo ad aspettare al varco.

  • Ma alla fine non era questo.

    Io sono un treno.

    Un treno di centinaia di vagoni. Considerato che ogni vagone di un Eurostar è lungo 26.10m possiamo dire che siamo nell’ordine dei 26.10m x 100 = 2610m = ho fatto 2 chili e mezzo di treno, che faccio lascio?

    Sono un treno che procede lento ma vuole andare sempre avanti. E chi aspetta il mio passaggio davanti alla sbarra deve sorbirsi 100 vagoni che passano alla velocità di 20 Km/h. Considerato che 20 Km/h = 5.5 m/s (e si ringrazia Google), 2610m / 5.5 = 474.5s = 7.9 minuti. Vabbè, e ci dobbiamo perdere per 0.1 minuti? E no, allora facciamo 8 minuti. Ce n’è da aspettare, comunque.

    A volte si para qualcuno davanti perché vuole suicidarsi sotto di me (a 20 all’ora…), oppure vuol farmi fermare per protesta, oppure vuol rapirmi (rapire un treno? Oh Cowgirl, ti prego, salvami!), oppure vuol salir su per scroccare un passaggio, o semplicemente per assaporare la brezza dell’attrito sul viso (a 20 all’ora… boh).

    A volte mi fermo, a volte no. A volte mi fermo, aspetto, riparto. A volte non ci faccio caso e lo spingo via con uno sbuffo di vapore.

    Stanotte poi ho fatto un sogno strano (e qui qualcuno potrebbe obiettare che alla fine tutti i sogni son strani). Ero in viaggio. Alloggiavamo in un posto a metà tra un bagno turco, un ospedale e un ostello. Insieme ad amici. Un giorno, in due, decidiamo di far gita in un altro posto. E io mi trasformo in un videogioco. Un tizio che vola giù in picchiata da chissà quale altezza, e deve aggrapparsi a delle specie di aerei aviomorfi. Inutile dire che schiatta sempre al suolo, in un modo o nell’altro (And the dreams in which I’m dying…). Vabbè, alla fine riesce a sopravvivere, e per premio torno in me stesso, atterrato in una zona desolata di questa città sconosciuta. Corro, corro, corro (Cavalca, cavalca, cavalca…). Sono da solo. Non ho modo di chiamarla. Vado in un autosilo, mi vorrei fregare una macchina. Si entra solo con tessera magnetica. Porc… ok, cerco di prendere un pullman. Ce ne sono tantissimi, sotto un grande arco. Vanno tutti a Tokyo. Li perdo tutti. Cerco di tornare al punto dov’ero atterrato, ma ormai è buio e io non so dove sono. Corro, corro, corro, mi sveglio.

    Ok, adesso posso anche accarezzarmi i capelli.

    Forse sì, non è niente di particolare.
    O forse è un pezzo di me che va via e che non riesce a ritornare.
    E farsi nuovamente riempire.
    O è colpa mia, tout court.

    E non sono un bravo attore.
    Né mi avvalgo dell’RMA.
    Al contrario di quanto sembri.

    Ma questo è meglio che non si sappia in giro. No?