Category: Maieutics

  • Non so dirlo.

    Però… diamine… è così banale… no, anzi… scontato.
    Bisognerebbe poterlo dare per scontato.
    Anche se fa piacere saperlo.
    Come la prima volta.

    Prendi l’inverno.
    La sua presenza è scontata.
    Voglio dire, è inevitabile che arrivi.
    Però fa piacere sentirlo addosso ogni volta.

    And I hope to feel soon so inebriated for all these frames to cut out.
    And to make them revive in the eyes of who will want to share.
    And I hope to save some of them for me.
    And to let them revive in the eyes of who I will let share.

    And I want to throw a coin in the air without betting for head or tail.
    Because I want to follow this scent till the last day.

  • Ri-ciclo.

    Improvvisamente nell’aria si sentì un odore forte, tremendamente piacevole. Stimolava i sensi come l’eucalipto, ma in realtà era una sostanza inodore, e senza alcuna provenienza.

    Era il pipistrello-angelo-drago. Il nostro amico, anche se lo nasconde per timidezza, lo conosce per la verità da molto tempo. Sentì raccontare la sua storia da un certo Ted. E questa fiaba fece allora commuovere un grande e un piccino. Chissà, oggi forse farebbe piangere molti grandi, insieme ad un’infinità di piccini.

    Dove non ha potuto lo sciopero della fame di Pannella, dove non è arrivato lo sciopero della figa guidato da Lisistrata, giunse infatti il canto melodioso di questo essere lontano ad infondere pace e serenità. Un canto dall’odore insolito, per l’appunto.

    Ma il tempo era passato, l’Uomo di Ferro che lo aveva reso schiavo era ormai diventato ruggine. Il drago, dispiaciuto per la fine di colui a cui aveva deciso di sottomettersi e affezionarsi, aveva perso la voglia di cantare. E la conseguenza era intuibile.

    Una notte l’angelo, di nascosto al Committente, con grande sforzo volò fin sul lato oscuro della Luna, per andare a trovarlo. Lo trovò in un profondo letargo, e russava. Eppure anche questo suo strano russare era armonioso e rasserenante.

    Lo svegliò dolcemente, e lui rispose: «Vuoi sapere la verità? Spesso, di nascosto, continuo a cantare. Ma sono cambiate tante cose. Ci sono cinque dimensioni, e la quinta è così lontana rispetto a quella in cui popoli interi sapevano ascoltare questi suoni».

    Allora l’angelo volò dolcemente sul suo enorme muso e, accarezzandolo, gli disse: «Sai che conosco bene la tua mestizia, perché è la stessa che mi ha attanagliato per anni. Ma ora ho buone notizie per te. Ho trovato chi sa ascoltare con sensi nuovi. Sono coloro che riuscivano, pur senza accorgersene, ad apprezzare questo canto senza suono. Ti prego, torna a cantare. In cambio mostrerò loro il motivo dei loro momenti di serenità, perché possano invocarti nei momenti di debolezza e sentirsi rinfrancati dal tuo aiuto lontano».

    Il pipistrello-angelo-drago sembrava commosso.
    Nella penombra si riuscivano a scorgere i vaghi riflessi di occhi lucidi.

    Era da tanto che il drago cercava un piccolo fiore a cui affezionarsi. Ancora una volta.

  • Tumulto.

    – Vuoi forse dire che è necessario, paradossalmente, inseguire i propri sogni per poter conferire alla realtà quell’aspetto tale da consentirci di riconoscerci in essa?

    – Sebbene corretto, non scorgo la necessità di parlare di paradosso. La realtà dipende, in verità, la proiezione del nostro sistema di valori. Detto in altro modo, non esiste un solo modo di guardare alla realtà, ma ognuno ha il suo, e questo dipende da ciò che siamo. Ciò che siamo, a sua volta, dipende da quelle che sono state le nostre esperienze passate. E tra queste la dimensione del sogno ricopre un ruolo importante. Il sognato si accompagna armonicamente al vissuto.

    – Ma se si tratta di una dimensione così differente da quella che viviamo fra un "coma" e l’altro, come può il sogno coinvolgere la nostra visione del mondo?

    – Mio caro, hai mai avuto un sogno nel cassetto?

    – Sì. Volevo fare il fotografo.

    – Ebbene, ad un certo punto ti sei trovato di fronte a due scelte. La prima era quella di inseguire il tuo sogno, e dedicare ogni tuo sforzo ad esaudirlo, scorgendolo così forte e insistentemente presente. La seconda era di accettare già da subito di rinunciarvi, aderendo ad un chissà quale modo di pensare esterno che, volendo, potresti ritenere incondivisibile. Se sei qui a parlare con me, vestito di questi abiti sporchi di calcestruzzo e vernice significa che, magari avendoci pur provato, hai pensato dopo un po’ di tempo che fosse la realtà quella da seguire. Invece io ti dico che avresti potuto inseguire il sogno.

    – Ma ormai è tardi per riprovarci.

    – No. Ricordi? I sogni non hanno tempo.

  • Il sogno del coiffeur.

    Volevo parlare. Ma non riuscivo.

    Sentivo i loro sguardi addosso.

    Coincidenza volle, però, che si presentassero proprio in quel momento sette figure. Una era Socrate, che aveva appena ingerito la cicuta. Poi c’era Nietzsche, che si stava rannicchiando in seno a Schopenhauer che lo accarezzava dolcemente. Seduta in mezzo alla folla si poteva scorgere Moana Pozzi, che non è quella che pensate, bensì la titolare della Manifattura Moana Pozzi scarl. Voltai lo sguardo e vidi anche uno strano animale aggrapparsi sul muretto con i suoi zoccoli, e affacciarsi con le sue tre teste. Ha un non so che di familiare, ma non riesco a ricordar bene chi sia (anzi, chi siano).

    Improvvisamente sentii un’euforia nascere dal punto più interno del ventre e salire, come una sfera d’energia, su per il midollo spinale e scoppiarmi in volto. Tornato cosciente, vidi tutti guardarmi con meraviglia. Guardavo le loro labbra serrate, eppure potevo sentire il loro mormorio. Improvvisamente ero diventato così magnifico.

    Fu allora che cominciai a parlare.

    Non c’erano parole, la mia bocca era ancora sigillata.
    Ma dissi qualcosa del genere.

    Cos’è che ci permette di distinguere la dimensione del sogno, dell’immaginario, dalla dimensione del reale?

    In sostanza è la coerenza.
    Coerenza logica e coerenza temporale.

    Per coerenza logica mi riferisco all’aderenza della connessione logico-sequenziale degli avvenimenti a quelle che sono le strutture logiche del nostro intelletto. In altre parole non riconosciamo il sogno come logico in quanto non riusciamo a trovare una connessione logica o causale in ciò che accade.
    Il nostro intelletto rifiuta (o piuttosto filtra) quello che abbiamo sognato in quanto non può incasellarlo in una sequenza logica di avvenimenti. Ci turbano infatti i sogni che chiamiamo spesso realistici: questi non sono altro se non quelli che possiamo comprendere meglio in quanto costruiti secondo una sequenza logica di avvenimenti, e che potremmo anche riuscire facilmente a raccontare ad altri e, di conseguenza, memorizzare.

    Per coerenza temporale intendo invece la capacità dell’intelletto di collocare temporalmente gli avvenimenti. Chiaramente può anche essere un tempo approssimativo, come il ricordo di "tanti anni fa", o ancora più semplicemente la distinzione fra un passato prossimo e uno remoto.
    Questo nel sogno avviene difficilmente, sia in senso relativo (ad esempio fra un episodio e un altro si può passare in pochi minuti dal giorno alla notte e poi di nuovo al giorno) sia in senso assoluto, nel senso che difficilmente riusciremmo a dire a che periodo della propria vita si riferisce quanto sognato (spesso non ricordiamo neanche tanto bene quando ci è capitato di sognare qualcosa).

    Ma, alla fine, chi ci dice che sia questa la realtà?

    Ovvero, chi ci impedisce di pensare che possa essere, magari, la dimensione del sogno quella "vera", e che in realtà i due mondi difficilmente si incontrano soltanto perché i nostri schemi logici in "questa" realtà sono totalmente differenti rispetto a quelli della realtà del sogno?

    In altre parole, chi può negare con certezza che il nostro cervello semplicemente si rifiuti di concepire l’esistenza di un altro mondo dominato da una logica a sé stante, e che in questo mondo conduciamo una vita parallela di cui non siamo sostanzialmente a conoscenza?

    Provate ad immaginare.

    Se mancasse improvvisamente il requisito della coerenza alla realtà che vedete, ci sembrerebbe di vivere un’unica lunga vita, separata semplicemente da un ciclico coma notturno.

    Una volta conobbi una ragazza che non riusciva a distinguere più il sogno dalla realtà. Il fatto è che non riusciva a dormire da mesi, e per questo la sua mente ogni tanto si sforzava di riposare durante la giornata. Spesso le capitava di avere delle piccole allucinazioni. All’inizio le era evidente che fossero delle invenzioni della propria mente, ma a poco a poco le venne inevitabile dubitarne.

    Non riusciva più a distinguere il reale dall’irreale.
    Perché una percezione del reale ricca di incongruenze non è più realistica.

    Non più allucinazioni, ma sferzate alle fondamenta.

    Avrebbe potuto decidere di uccidersi e non soffrire il peso della sua decisione.
    Sarebbe stata una goccia di incoerenza in un bacino di confusione.

    Tutti rimasero ammutoliti.
    Non capivano.
    Forse cercavano ancora rifugio in quegli schemi così familiari, così rassicuranti.
    Perché era così difficile?

    Eppure a me sembrava tutto così evidente.

    Sentii le mie alucce dare una sferzata nervosa.

  • Il trauma indifferente.

    Eravamo tutti lì, seduti davanti ad un plastico enorme. I partecipanti mormoravano sorridenti, soddisfatti del Nuovo Corso degli Eventi. Una musica in sottofondo spingeva alcuni a danzare sul posto, tanto che uno di quelli, che finora era stato sempre zitto, improvvisamente si era alzato sulla sedia e aveva cominciato a ballare nell’ilarità generale.

    E io mi sentivo così bello nel mio vestitino nuovo. Con due fessure appositamente ritagliate sul dorso. Sedevo alla destra del mio nuovo Padre. Alla sinistra, incatenato alla Colonna dell’Infamia, c’era l’Architetto che, invece, guardava in lacrime i pezzi del suo plastico gettati ai piedi.

    Fu in quel momento che il committente divenne finalmente Committente, e iniziò a parlare.

    «Bentornati. Beh, in effetti dovrei dire bentornato a me stesso. Devo ammetterlo, ho compiuto un grande errore, ed è stato quello di trascurarvi. Purtroppo avevo lasciato il mio progetto in mani adunche e negligenti, e i risultati sono stati pessimi.

    «Tuttavia non farò lo stesso errore. Ho deciso di istruire personalmente e mettere a direzione dei lavori colui che vedete alla mia destra. Vi vedo interdetti. No, non fate così! Non vi spaventi il suo aspetto! Scoprirete, invece, che vi saprà amare, e con la collaborazione di tutti, in particolare del Gran Maestro degli Scalpellini, vedrete quanto sarà ben più entusiasmante tornare a lavorare per questo progetto!

    «E se questo non dovesse bastare, pensateci: state costruendo la vostra casa. Regalerò ad ognuno di voi un appartamento, e qui vorrò che veniate ad abitare. La coesistenza tra voi in questi mesi diventerà così felice che sarete voi stessi a chiedermi di estenderla al di fuori dell’ambito lavorativo. La coesistenza pacifica di tutti voi, senza rinunciare alla vostra specificità. Pensate che non sia possibile? Vedrete che meraviglia, ve lo prometto.»

    Tutti rimasero senza parole. Non era timore, o sfiducia. Ma non era neanche estasi o euforia.
    Erano tutti distratti dallo sguardo di quell’essere ripugnante che implorava di amarli.

  • Sento freddo.

    Ya basta.

    Parole ghiacchiate. Le vedo fendere l’aria che sanguina.
    Poi le parole spariscono, gli squarci – com’è ovvio – restano.

    Crack.

    E il problema in realtà è molto semplice. Quando arrivò il committente e presentò il progetto che aveva in mente, tutti gli astanti rimasero folgorati dalla magnificenza e lungimiranza della creazione che si parava dinanzi alle loro coscienze, obnubilate dalle parole convincenti e carismatiche del latore. Poi però, come succede quando le intenzioni sono solide ma la sostanza è fumosa, ci si rese conto ben presto che la costruzione procedeva in modo difforme.

    Allora successe che l’Architetto proprio in quel periodo aveva ricevuto un succulento acconto di quello che il committente aveva promesso alla fine dei lavori e, anziché scappar via col bottino come farebbe qualsiasi bravo figlio di puttana, aveva ben pensato di far leva sul suo buono sforzo creativo e, con pazienza, aveva riunito in commissione tutto il personale per stabilire una variante del progetto. Il committente in tutto questo non proferiva verbo. Giustamente, poteva succedere che l’idea iniziale potesse venir modificata in favore della sua effettiva realizzazione, quindi non c’era altro da fare che vedere come sarebbe andata a finire.

    Però, dopo un po’ di tempo, la situazione degenerò. Il Gran Maestro degli Scalpellini indisse uno sciopero perché si era fatto uno sondaggio interno all’azienda e si era scoperto che il personale era depresso. Qualcuno si sarebbe anche tolto volentieri la vita. Altri piangevano. Altri ancora si nascondevano per evitare di mostrare le loro crisi nervose. In sostanza ci si rendeva conto che le cose non andavano per il verso giusto, che il progetto iniziale era stato modificato in qualcosa in cui nessuno si ritrovava più, e l’entusiasmo iniziale si era bruciato ed era sepolto sotto qualche mattone.

    Era il caos. L’Architetto chiamava in continuazione il Gran Maestro degli Scalpellini per trovare una soluzione, ma quest’ultimo continuava a non trovar nulla soddisfacente, minacciando piuttosto di chiamare i sindacati che avrebbero sicuramente invocato la procedura di raffreddamento. Non aveva il coraggio di chiamare il committente, perché sicuramente avrebbe deciso di annullare tutto e, a titolo di risarcimento, avrebbe anche preteso indietro quel congruo acconto che, con gran fiducia, gli era stato dato preventivamente.

    Una sera dal freddo glaciale, però, il committente arrivò a sorpresa in cantiere.
    E si rese conto rapidamente della situazione.

    Lentamente, tutti stavano morendo assiderati.

    Entrò in una stanza buia. Accese il faretto che era per terra, e notò una presenza sul pavimento. Aveva delle ali attaccate perfettamente alla schiena, ma erano spezzate e non avrebbe volato più.

    Si avvicinò. Cominciò a sentire un mormorio. Si avvicinò ancora di più.

    Con un filo di voce, quella presenza stava mormorando continuamente, implorante, di curare le sue ali.

  • On the last good day of the year.

    Fresh old iBook so many things done I could forget you in 2015 Belle è un cagnolone delicato I’ve been to this place once again love you come back so many things thought Play that funky legs white boy. please feed your head this activity sucks knees I want to call this place home, home, home I miss you I could do this thing tomorrow I must do this thing today wanna be socially correct wannabe too late change that funkin’ strings with fresh new ones play this pay that go-CC-go! plastic Tokyoish movements so many things to do too slow sometimes too quick sometime else but time won’t save our souls «Non hai tu forse fatto a pezzi Raab, non hai trafitto il drago?» I won’t stop smoking I won’t stop talking I won’t stop st-tt-op-to-top-ppp 2046 reasons to look for warmth say hello to our 3 HP Vectra PCs in the new born Crush-lab LAN section, oh ma’ god wot a mess want a reflex want a Warwick want this, want that want nothing primitive lifes in primitive wine sweet kisses in sweet coffee tea + kräuteröl almond tea inspiration Santu Paulu miu di Galatìna, Galàtone, gàlata morente one new pleasing present in the blog, good people for good things. Intento specialistico.

  • Ed è per questo che ti odio.

    Oggi mi sono ricordato all’improvviso di te.

    Di quante cose ho fatto con te, di quanto ti vedevo splendente e lontano, di come ci tenevi a me e volessi vedermi rifulgere in un futuro che si prospettava, salvo qualche scaramuccia, roseo.

    Mi son ricordato di quanto correva la mia fantasia, e come a volte mi assecondassi e a volte mi prendessi in giro e mi davi piccoli traumi di bimbo. Mi son ricordato quando ti chiamavo in continuazione. Il due-e-quattordici o, se non c’eri lì, il due-e-diciassette-ma-solo-se-proprio-necessario. Mi son ricordato di quando ti chiamai disperato e subito dopo arrivò lei e mi costrinse ad agganciare mentre si consumava una piccola tragedia. Mi son ricordato tante cose, tutte insieme.

    Poi ti ho visto. E mi son ricordato di dieci anni fa. Quando, guardando tuo suocero andar via, mi resi conto che non splendevi più. E all’improvviso, solo in quel momento, mi resi conto che ormai eri vecchio, stanco. E il futuro non si prospettava più così roseo, né pensavi più che mi avresti visto rifulgere.

    Ora sei solo un vecchio isterico che straparla, urla e borbotta.
    Triste, rassegnato e senza speranze.

    Ed è per questo che ti odio.

  • Parole d’elio, nuvole di fosforo.

    Pioviggina. Succede sempre così, non riesco.

    A spiegare perché, quando vedo il tuo viso poggiato di profilo sul mio braccio, penso che sia qualcosa di diverso dal fottìo-di-parentame-un-po’-matto-inventato-da-me, qualcosa di ben più stretto, intimo, fuori contesto, assoluto. Ma, per quanti sforzi potrò fare, non ci crederai mai. E io ci provo lo stesso.

    E spiegare perché non riesco a reggere la violenza di un tornado, e invece affronto le tue morse fino allo stremo. O perché mi sento uno stupido quando cerco di spiegarti cose quando so che le parole sono inutili, veniali.

    E perché, in fondo, vorrei che continuassi a dimenticarti di quel cerchietto e quell’anello, e che restassero per sempre lì, senza che nessuno li muova di un centimetro, per vederli ad ogni piccola morte. E riascolto quella canzone il cui balletto scemo ora posso considerare, a suo modo, un piccolo presagio.

    Mi chiedo se abbia davvero ragione quel tachimetro farlocco che mettono per strada e in realtà vada a 74 Km/h anziché ad 80 Km/h. Ma questo, a meno che non vogliate ricavarne una morale sulla plurivalenza dela verità o sui rischi connessi alla guida in sonnolenza, non credo che possa riguardar qualcosa.

    Le parole fluttuano insieme alla condensa, manca l’aria, e ogni tanto respiro parole senza senso e ogni tanto un po’ d’aria. Ti guardo rincantucciata nel cappotto, fa freddo. Freddo. E torno con pensieri che si accumulano, si scontrano, alcuni vogliono distrarmi dall’angoscia emergente ma poi diventano loro stessi angoscianti e li rivedo negli occhi vitrei dello stesso gatto (sì, è ancora lì, dietro quella curva). Insomma, un bel casino.

    Poi chiamo Morfeo, che in realtà è una mamma affettuosa che ti rimbocca le coperte, e accarezzandoti i capelli resta lì tutta la notte a far scivolar via il velo grigio. E mi sento protetto nel suo grembo d’incoscienza.

    Non riesco. E succede sempre così, pioviggina.

  • Laissez-faire.

    Ok, sorella.

    Sei una scatola chiusa con dei forellini dai quali mi piace annusare i vaghi aromi di quel che sono diventato. E sai di non essere predatore né preda. Non più. L’altro binario. Un treno percorre 30km in 90 minuti, l’altro percorre 30km in 1 ora e trenta minuti. Figo. Mi sono guardato vivere e l’ho visto, l’ho vissuto. Diamine, quando andrà bene così per tutti potrò fare la nonnina affettuosa e dispensare biscottini del buon ricordo agli astanti. Di quelli tipo i fortune cookies, col bigliettino dentro. Eh, però attento a non ingoiarlo, perdio!

    E ti immagini quanti milioni di percorsi dedalici ad ogni passo? Oh Alice, non ti immagini come sia davvero strano e davvero meraviglioso pensare di potersi perdere in percorsi ignoti che potrebbero ricongiungersi ad altri o allontanarsi o dividersi o esaurirsi in un vicolo cieco o chissà cos’altro. L’importante è che non mi metta a dire minchiate e rimproverarmi da solo, altrimenti sarei proprio un esaurito. Percorriamoli insieme e basta, no? Chissà dove porteranno, certo, ma questo lo si sapeva già dall’inizio, e credo che proseguiremo volentieri il cammino anche solo per il gusto di sapere cosa c’è dietro. Magari un giorno scopriremo che dietro non c’è proprio un bel niente, ma almeno ci saremo tolti la soddisfazione. Tout court.

    Quando la si smetterà di stanarmi dovrò fare dei ragionamenti seri. Dico, seri. Per esempio, bisognerà rivedere un attimo la mission aziendale, più qualche altra diavoleria del genere tipo la famosa policy aziendale o chissà che robe. Ci son molte cose su cui lavorarci, quindi posa quella matita e cominciamo a prendere un paio di pennarelli per vedere che colori usi tu e che colori uso io.

    E poi tu sei una matita? No! E allora che cazzo te la prendi a fare?
    No anzi, prenditela. Tanto c’è tempo per tutto, anche per prendersela.

    E il tempo, comunque sia, non ci salverà di sicuro.