Category: Maieutics

  • Mendicando vita.

    Perché sei la scintilla che fa esplodere in mille direzioni i pensieri sconnessi e l’ansia di conoscerti. E spingi il mio corpo etereo fra enormi cristalli di sale, per aiutarmi a conservarmi. In attesa di una mano che mi disincastri da sinapsi impazzite che trascinano i miei sogni in linea obliqua verso il pavimento.

    Era così strano.

    Scivolavo senza fine lungo le scalinate di marmo nero, e giunto all’ultimo scalino, certo ormai della mia morte, mi fermo seduto, come se nulla fosse.

    Certo, sarebbe stata una morte davvero stupida.

    Ma poi cosa significa una morte stupida?

    Il signor Rossi è in giro al mercato delle pulci con il suo cane. Improvvisamente il cane schizza via e lui cerca di raggiungerlo, attraversando senza rendersene conto un’enorme strada con il semaforo rosso. Morte ovvia: una macchina non ha il tempo di fermarsi e lo prende in pieno. Morte assurda: una macchina non ha il tempo di fermarsi e devia contro un’altra macchina, provocando una serie di incidenti a catena; il signor Rossi è quasi giunto all’altro lato della strada mentre una motoretta, per evitare il maxi-tamponamento, devia contro di lui. Morte stupida: il signor Rossi sopravvive al colpo, ma caso vuole che sull’enorme ferita all’addome cada in quel preciso punto e momento una cagata di piccione di proporzioni immani, causando morte per setticemia.

    Non mi stupirei se morissi così.
    Di certo almeno sarebbe un po’ divertente.

  • Weltanschauung.

    Allora.

    Prendiamo una ciotola. Mettiamo dentro un po’ di metadone, pepe e noia. Poi aggiungiamo un po’ di maionese, per cominciare ad amalgamare il tutto. Poi aggiungiamo un pizzico di limone, giusto per conferire quel sapore un po’ acre. E a questo punto anche un po’ d’acido citrico, così ravviviamo un po’ i bruciori.

    Poi versiamo il tutto, lentamente – intendo quasi uno stillicidio – in due bicchieri. In uno aggiungiamo cucchiaiate abbondanti di piombo, mentre nell’altro aggiungiamo grandi manciate di insofferenza. Infine mettiamo qualche altra sostanza soporifera nell’uno e qualcosa di nervoso e nauseabondo nell’altro.

    Opzionalmente possiamo anche prendere un metro già taccato in precedenza e inserirlo nel secondo bicchiere per comparare la misurazione con gli esperimenti precedenti e venturi. Probabilmente non servirà a nulla, ma male che vada potremo usarlo come punteruolo.

    Una volta fatto questo, possiamo riversare velocemente – intendo quasi uno schiaffo – nella ciotola.

    Attenzione, esplode.

  • Transeunte.

    Principio di simmetria.
    O equivalenza, magari.

    Voglio lasciare questo fiume scorrere candido rosso, lungo gli argini costruiti sapientemente a pelo d’acqua dall’empirìa, mentre una luce natural-finto-artificiale si spezzetta in mille coriandoli liquidi.

    C’è da pensare a questo.
    E poi a quest’altro.
    E quest’altro ancora.

    Ma all’improvviso è spuntata lei, e mi ha appena fatto ricordare tante cose.
    Soprattutto che è passato del tempo.
    Tempo in cui era così, e oggi non più. Tempo che è passato da quando. E non è ancora cambiato nulla. Tempo che non si è più risolto ora questo e ora quello. Tempo che (da quanto tempo!) dovrebbero finire certe situazioni. Tempo delle profonde e continue, continue metamorfosi. Catarsi.

    E tutto questo tempo mi sembra allo stesso tempo uno scorrere inesorabile del tempo e una temporanea lunghissima transizione che dovrebbe servire a tradurre nella mia coscienza le nozioni di un’esistenza transeunte.

  • Perché se sono ontologicamente incerto è colpa di una teleologia assolutamente inconsistente.

    E allora basta con questo ripetitore Wi-Fi.

    Ne costruisco uno io, quasi quasi.
    Però che ripeta, come farebbe un’eco ma in modo vivido e diretto come se fosse ora, gli istanti sciolti nel mare dell’obliato. Perché è come studiare la Storia (che infatti è sempre stata una materia che ho odiato; idiota): è necessario ricordare tutto il passato per poter capire il presente.

    E no, azzardarsi a predire il futuro proprio no.

    Perché faccio sforzi enormi a dover progettare qualcosa da qui a pochi mesi. E lo sforzo diventa drammatico se inizio a pensare a progetti a medio termine. Lunghi poi.

    Allora costruisco un ripetitore per teletrasportare la testa su Nettuno e farla durare 168 anni, mentre il cuore lo spingiamo su una qualche stella tipo Groombridge, tanto sono appena 16 anni-luce. E tutto il resto lo buttiamo. Che fa. Tanto io volevo gli occhi verdi, o blu, o nocciola, e invece mi ritrovo questi occhi castano-chiaro-pseudo-nocciola-che-sembrano-cervoni-d’estate.

    Così magari non penso a questa angoscia che ciclicamente mi prende, e mi opprime. Immotivata (non perché non ci sia un motivo, ma perché c’è e non lo si riesce a trovare, e questo ti fa incazzare da morire), sale come un’emicrania e ti punzecchia per tutta la giornata. Cerchi di non pensarci, e ti sembra di averla allontanata, per poi ritrovarsela al primo momento libero. Ah beh, a volte non aspetta neanche, bisogna ammetterlo.

    Allora costruisco una serie di ripetitori in loop che trasmettano al mio cervello dei segnali assolutamente inutili, così il mio cervello sarà così sovraccarico di puttanate che non avrà spazio per questa stronza.

    E forse alla fine morirà asfissiata.
    O semplicemente si allontanerà.
    Offesa. Con tanto di muso lungo di serie.
    Perché non si sentirà più al centro dell’attenzione.
    Perché non si sentirà più al centro della mia attenzione.

  • De contemptu mundi.

    Perché odio.

    Odio sentirmi indebolito, la testa che scoppia, e il movimento autonomo del mio corpo che fluisce via senza che la mente possa seguirla.

    Odio l’odore di piscio, alcool, fumo, vomito, sudore. Fra gente accalcata che si appoggia vicendevolmente senza meta, mentre cerchi di dribblare una lattina vuota e una bottiglia di birra, un piede e un copertone. E odio dover cercare il profumo del solito vino di merda per affievolire quel disagio.

    Odio gli LTA. La razza più infame. I figli dell’«o tempora o mores», della «bell’età dell’Oro», della «laudatio temporis acti», del «si stava meglio quando si stava peggio», del «qui una volta era tutta campagna, tutta campagna…», del «non ci sono più i %foobar% di una volta». Ma soprattutto, quelli del «vorrei poter tornare indietro». Simpatici posacenere da collezionare sulla mensola delle dolci e seducenti naività, da poggiare rigorosamente accanto a quelli del «sono tornato quello di prima».

    Ci sono questi piccoli istanti in cui sento un profondo disprezzo per il mondo circostante.
    Si tratta di un battito di ciglia, un’esplosione di coriandoli che scivolano giù come neve sul pavimento.

    E mi sentite parlare, parlare e parlare.
    Poi improvvisamente mi fermo.
    Fisso il vuoto.
    Riprendo a parlare.
    Di tutt’altro.

    Se lo faccio, non è perché pensi davvero che non sia il caso di non parlare di cose poco interessanti.

    Perché io continuerei a parlare all’infinito, e sempre con lo stesso entusiasmo, del tempo che passo a costruire questa piccola LAN casalinga, degli Access Point che collego ad uno switch per dare a tre piccoli server la possibilità di collegarsi via Ethernet, o dell’impossibilità a fare un backup in extremis sull’iBook perché mount_ftp va in sola lettura e mount_msdos non funziona perché sul CD manca giustappunto msdos.kext, cazzo.

    E poi, all’improvviso, scende una goccia sulla testa.
    Sfrigola su qualche sinapse surriscaldata.
    Mi fermo.
    Resetto.
    E posso provarci altre due o tre volte.
    Ma poi non riesco a riprendere il discorso di prima.
    Perché, nel suo piccolo, sarebbe come voler tornare quello di prima.

  • Così.

    Diotima era là come una statua e io sentii la sua mano morire nella mia. Avevo ucciso tutto intorno a me, ero solo, e l’immensità silenziosa in cui la mia vita traboccante non trovava più appoggio mi procurò un senso di vertigine.

    (Friedrich Hölderlin, Hyperion Oder Der Eremit in Griechenland)

    Thank you, IRA.

  • アマミ, ジュ. コメ アモ テ.

    Non ricordo più nulla, al di fuori di frammenti.
    Piccole esplosioni davanti agli occhi.

    Non ricordo più nulla.
    Ora ricordo.

    C’era un piccolo essere che voleva morire di una piccola morte, la cui presenza assonnata e silenziosa mi era ormai indifferente. E io continuavo a parlare, parlare, e ancora parlare. Non sentivo più il freddo, né la stanchezza, né il dolore. Non sentivo più il dolore, perché non sentivo più neanche il motivo di quel dolore. Non lo ricordavo già più.

    Eppure parlavo proprio di quello. Solo di quello.

    Parlavo del fatto che ci stiamo avvicinando alla guerra fra due stagioni, e io per l’ennesima volta dovrò essere spedito al fronte e cadere nell’ennesima battaglia persa. In realtà è un po’ come un curioso e triste rituale, che però adesso ho fatto mio e che, con un pizzico di titanismo, continuo a portare avanti insieme all’Anarchia. La mia piccola utopia vitale.

    Sono nell’avamposto che lotta strenuamente contro lo scorrere inesorabile del tempo.

    Perché alla fine sono un po’ romantico.

  • No step.

    Sono in stand-by.
    Pertanto mi è tutto sostanzialmente indifferente.
    Altrimenti, al contrario, sono intrinsecamente insofferente.

    Provo a sentire una profonda contrizione, ma non riesco. E il fatto è che questo problema diventa una scatola, chiusa e sormontata da un’altra scatola, a sua volta chiusa e sormontata da un’altra scatola ancora più prominente. Pur non essendo importante, l’ultima scatola è talmente tangibile che mi riesce più facile voler indugiare sul sollevarla o meno per vedere cosa c’è sotto. Potrei aspettare una quarantina d’ore ad esempio, il che sarebbe l’ideale, o potrei sollevarla e sperare che l’antimateria non mi corroda ancora un po’.

    Vedo frecce infuocate scagliarsi al cielo, dirette a me ma intenzionalmente fuori mira. Certo, so che prima o poi mi potrebbero centrare, ma io non voglio scudi e non voglio svicolare. Non ho nessun motivo per farlo, semplicemente. Anzi, in fondo vorrei darti un buffettino sulla fronte, di quelli che dicevano chiaramente «Sveglia! Ricordi? Capisci?». Un’ultima volta. Solo che le cose sono cambiate, e avrebbe l’effetto di un sonoro e provocatorio ceffone. E allora la contrizione lascia spazio ad una pena infinita. Prima o poi finiranno le frecce, e giungerà l’armistizio. Non ci vuole poi tanto.

    Ho un’ansia che difficilmente saprei spiegare. O motivare. Forse è perché sto compiendo sforzi disumani per convincere il mio inconscio a non assecondare questa sorta d’istinto di protezione e tagliare quindi un filo che invece va serbato ad ogni costo.

    Ma è il caso di fare un’ultimo sforzo: il premio varrà qualsiasi sacrificio.

  • With no remorse I wanna die.

    Pronto? Sì vabbè, sto parlando ad una segreteria telefonica, qui non è pronto proprio nessuno. Mi avevi fatto uno squillo per caso? Con l’addebito poi, sempre il solito tirchio. Non ti fai sentire mai, sembra quasi che abbia il terrore di avere a che fare con me. Ma qual è il problema? Non ti piaccio?

    Senti, per quanto riguarda quella cosa volevo dirti che non ho la più pallida idea di cosa risponderti. Voglio dire, sai che non posso sbottonarmi su certe questioni, e mi è stato incaricato esplicitamente di non lasciar trapelare mai nulla che possa lontanamente evitare all’Uomo quel famoso dubbio… scommetto che non sai neanche di che sto parlando… e certo, ti senti così convinto con il tuo homo faber fortunae suae, e intanto ogni tanto fingi di sfotticchiare quando parli di una certa fatalità nel corso degli eventi… beh, caro mio, su questo punto fammi dire giusto una cosa: non sei una quercia, né un rivoluzionario, ma non sei neanche una canna di bambu’. Sembra che questa frase per intero non riesca proprio ad entrarti nella zucca, uh?

    Sia chiaro, io non voglio metterti fretta. Però forse è giunto il momento delle decisioni… revocabili. E certo, non prendiamoci in giro, perché c’è sempre tempo – quando c’è quel briciolo di volontà buono a sopraffare la pigrizia – per cambiare se le cose non vanno.

    E poi, caro mio, come puoi pensare di poter vivere senza rimorsi? Non farti abbindolare da quegli sparaballe che vanno cianciando in giro di non aver rimorsi… i rimorsi ce li hanno, ma per mostrarsi migliori degli altri li reprimono in un cantuccio della propria coscienza. Guarda, una delle frasi che mi fa più ridere è «ho vissuto una vita senza rimorsi». Ah ah, se solo si rendesse conto di com’è inutile e fugace la sua misera vita si starebbe certamente più zitto! Perché senza rimorsi non riuscirai a morire, e magari potremmo dire anche non riuscirai a morire senza rimorsi.

    Comunque, se ti può aiutare, mentre ti sto parlando sono andato su un sito stupidissimo dove ho scoperto che il numero fortunato associato al tuo nome è il 2. Che novità è? Lo sappiamo tutti, stai sempre a rompere il cazzo con ‘sto due, la dualità, il manicheismo della nonna, conosco-tutte-le-potenze-di-due-perché-fa-molto-smanettone-figo, il conflitto fra 7 e 2 che non… Però è divertente vedere che secondo qualcuno dipende dal tuo nome. Mmm, mi sto sbottonando troppo. Ho capito chiudo cià.

  • Air in blue.

    Bisogno di spazio.

    Quando faccio log-in alla mia position ho l’assoluta esigenza di cambiare la risoluzione da 1024×768 a 1280×1024. Passa la gente e mi guarda attonita, provandosi ad immaginare lo strazio per gli occhi che mettono a fuoco caratteri così piccini. Altri invece assumono un’espressione inveente, pensando a quale casino sarà rimettere tutto a posto quando quella position toccherà a loro. Mi ricorda quando avevo un monitor CRT da 14", e la gente faceva scommesse su quanto sarebbe durata la mia vista con una risoluzione 1024×768. Ma erano altri tempi (e altri monitor).

    E comunque a me dispiace per voi. Di cuore.
    Ma ho bisogno di spazio.

    Ho preso l’abitudine di mettermi a leggere in macchina. In macchina. Quasi sempre di sera. Approfitto dei momenti d’attesa per immergermi in letture che a volte insegnano tout-court, a volte sconvolgono, a volte sono solo un’impresa ermeneutica. Parcheggio in un luogo semi-deserto, abbasso un po’ i finestrini, accendo una sigaretta (già, accendo una sigaretta), e comincia il rituale.

    Ieri ho rubato due ore al sonno così.
    In macchina.
    Di fronte a casa mia.
    Pur di finire quel maledetto libro.

    E a me non dispiace.
    Perché avevo bisogno del suo spazio,
    barricandomi in uno stretto spazio,
    immerso in un ampio spazio.

    A volte, sì, capita anche a me di voler stare solo.
    E allora, tanto per cambiare, ho bisogno di uno spazio, che si espande in modo indefinito, protetto da una cortina d’indifferenza. Posso avere quattro o cinque persone attorno a me, ma non fa nulla, perché nessuno può scalfirla.

    Tranne te, ovviamente.
    Che puoi entrare e uscire tutte le volte che vuoi.
    Mi casa es tu casa.

    E sai quanto sia efficace.
    Quando ci barricammo insieme, nulla riusciva a penetrare attraverso quell’avorio.

    E se è vero che ognuno ha il suo spazio (vitale o anche più-che-vitale), è vero altrettanto che in questo spazio vale la pena di farci entrare chi vale la pena.

    Se ne vale la pena.