Author: TheLegs

  • Ce l’hai il jungle capo?

    (Human Traffic, UK 1999)

    Arrivato al minuto 32:qualcosa di questo film, arriva all’improvviso un’irresistibile voglia di bere birra rossa doppio malto e fumare capelli e origano, ascoltando Aphrodite e sniffando piste di borotalco.

  • Estemporanea XIII.

    Il 35% dei multiversi è quello delle scelte sbagliate.

    Il 60% di quelle mancate.

    Il restante 5% è fatto da quel mucchietto di strade, ormai vicine e quasi apparentate, sulle quali si saltella a piè alterni (e a volte anche pari), come nel gioco della campana.

    E dovremmo sentirci tutti dei dannati Peter Pan e scorrere come biglie lungo una discesa interminale per poter sopravvivere.

    (photo: Wikimedia Commons)

  • Magnetic storyboard.

    E aspetterò che il sole vada via un’altra volta per nasconderti e lasciarti lì ad aspettare la pioggia. E la pioggia ti rinfrescherà e ti sporcherà, e allora aspetterò la pioggia per lavarti e lasciarti lì ad aspettare l’inverno. E l’inverno ti raffredderà, e allora aspetterò l’inverno per scaldarti e lasciarti lì ad aspettare che il sole torni un’altra volta. E il sole ti brucerà, e allora aspetterò che il sole torni un’altra volta per farti ombra e lenire le bruciature.

    Ma a quel punto non potrò far nulla, perché brucerà lo stesso, brucerà comunque, brucerà sempre e urlerai, mi griderai contro, e tutto sarà inutile, e poi.

    E poi,
    un battito di ciglia.

    E sono dov’eravamo.
    Dov’erano.
    Dov’ero?

  • Abèreabàralbèrealbàr.

    Se mi mettessi con me stesso ci lasceremmo dopo un anno.
    Con atroci sofferenze.

    Il compagno perfetto esiste,
    ed è in un luogo delle cinque dimensioni
    che non abbiamo mai raggiunto
    o capito.

    Tuttavia esistono numerosi compagni perfettibili, che ci piace chiamare perfetti fintanto che riusciamo a plasmarci sulla loro superficie come un velo di seta. In cambio, come cagnolini affettuosi, ci offrono in dono ascolto, lusinghe o soddisfazioni, finanto che riescono a plasmarsi sulla nostra superficie come un velo di margarina.

  • Come to daddy.

    Con. La testa. In un. Acquario. Soppesando. Le. Parole. Una pausa. Ogni. Non più di. Cinque sillabe. Conpocheccezioni.

    Con la testa, come se fossi in un acquario, soppesando le parole. Una pausa ogni 10 secondi. Perdifiato. Fiato rotto. Rompicapo.

    Con la testa che rotola e guarda tutto e non guarda niente e tocca e non sente e parla e non sente e scrive e non sente.

    Con la testa come quando hai malditesta. E il dolore diventa fastidio, e poi ancora fastidio, e poi dolore, e poi fastidio. E, diosanto, non mi devi rompere i coglioni. E, diosanto, non mi devi interrompere mentre sto pensando, e strapensando, e ripensando, e tutto mi sembra acquoso, e mi fa quasi schifo ogni contatto umano, e mi sento come quelli di quei film che vanno nei night club guardano le donnine nude e le riguardano e bevono e le riguardano e non gli passa nemmeno un attimo in testa di toccare o di scopare o almeno di ammazzarsi di seghe niente di niente completamente atarattico o forse in realtà un po’ annoiato dalla banalità del bene e la banalità del male ma soprattutto il bene. E, diosanto, non mi far stare male. Mi fa già male. Qui, vedi? No, non qui, ma lì, in quella gabbia. Un dolore sopportabile ma ininterrotto e variabile, di quelli che con tutti gli sforzi che puoi fare per distrarti alla fine ti distrae, toglie spazio a qualsiasi messa a fuoco, di quelli che puoi provare solo ad inserire una qualche specie di pilota automatico, e a quel punto buona fortuna, buona fortuna davvero.

    Con la testa che forse non vuole essere una testa.

  • The badger.

    Prendo un piede e lo sbatto contro il muro. Lei si incurva e comincia a scivolare sotto le parole, per risalire dall’altra parte. Una vasca dopo l’altra, fintanto che il respiro regge il confronto.

    Cammino con grandi falcate. Grandissime. La gamba si allunga, aggancia il terreno, trascina il corpo e torna in sé. I miei movimenti sono fluidi, omogenei. Il mio sguardo è inerte. Le mie dita tremano.

    – C’è un buco nero, qui a fianco. Potremmo gettarci.
    – Per far cosa?
    – Per andare via.
    – Dove?
    – Non lo so. Da qualche parte andremo.
    – E se finiamo in un posto che non ci piace?
    – Ci piacerà, in qualche modo. Andiamo via e basta.
    – Io non voglio andare.
    – Neanch’io.
    – Ma hai detto che volevi andare.
    – Perché non vuoi andare?
    – Oppure sì, voglio andare.
    – Anche io.
    – Ma hai detto che non volevi andare.
    – Perché vuoi andare via?

    Seduti in riva al vuoto.
    Mille idee in cerchio.

  • Prostituzione multicanale come panacea dei rapporti personali, aka: testing Separation of Concerns through quasi-asemantic HTML.

    Si comincia da qui. Si scruta a fondo la forma per cercare una piccola o grande finestra verso il contenuto.

    Un qualche dettaglio, attraente, in qualche maniera sensuale, fa aumentare esponenzialmente la curiosità, la voglia di sentirsi in qualche modo un tantino sopra gli altri, quegli altri che questa curiosità non l’hanno proprio avuta, oppure era troppo piccola per darle ascolto.

    E il tuo cuore irrimediabilmente romantico legge al posto tuo, analizza la forma, la interpreta, scovando significati che di certo altri non hanno neppure immaginato. Finché non giungi alla conclusione che ci sarà sicuramente qualcosa di speciale, che è nascosto, che non si trova, che non soddisfa appieno quella perversione soft-voyeuristica che è a tratti persino generazionale.

    Ti fai coraggio. Vinci la timidezza. Bussi alla piccola o grande finestra. Speri che il contenuto venga ad aprire. Beh, o quantomeno che si affacci, insomma.

    Si affaccia. Finalmente. A volte hai la fortuna di capire subito se quello che adesso hai davanti è il contenuto o, piuttosto, un’altra forma, con tanto di delega scritta e mandato ad operare.

    Il problema di queste forme è che, a volte, non ti fanno mai arrivare al contenuto. Ti illudono di essere arrivati alla sostanza, alla materia prima, ma in realtà è un trucco. Meschino. Altre volte, invece, il contenuto arriva davvero, prima o poi, e scopri che è davvero deludente. Non che sia necessariamente più noioso, o troppo difficile per i nostri gusti. Semplicemente molto diverso da come te lo immaginavi quando avevi ancora quella curiosità un po’ entusiasta. E meno male, perché altrimenti cercheresti di allinearlo il più possibile a quella tua idea di lui.

    Poi (deo gratias) ti accorgi che è tutto inutile.

    A volte te ne accorgi solo dopo un po’.
    A volte un po’ tardi.
    Te ne sei accorto o no?

    Poi però ci riprovi. Non demordi.
    Perché senti che è la strada giusta.
    Più te lo ripeti e più sarai convinto.
    Garantito.

    (e che culo.)

    (photo: play with me by s~revenge)

  • ASCII-Art #2. Reductio ad unum.

                _A_  Hola!
        ^^      oo   Coñece Zapata?
       .)(.     { }.
    ____db______dd_T_____________________
    
    
    
      Wow, nice! C'mon,
      just 1 photo 4
      my profile!
                      _A_  Turistas...
        ^^            --'  que bobas.
        ))*          { }.
    ____bb___________bb_T________________
    

    Viviamo in un sistema crudele.

    Ci esorta, ci spinge, ci costringe a sentirci delle individualità specifiche e irripetibili. Produce migliaia di tipi diversi di vestiti, cibo, libri, giocattoli e ritrovati tecnologici. Ma li produce in serie. Le idee che governano gli schemi di design e di produzione sono prodotti in serie. Ogni oggetto è riconducibile ad uno schema omogeneo e così radicato da risultare quasi invisibile tant’è dato per scontato.

    Inutile dirlo, anche i pensieri vengono prodotti in serie.
    Da propinare insieme agli omogeneizzati.

    Viviamo in un sistema crudelmente buono.

    Ci fornisce tutti gli strumenti per sentirci diversi. Semplicemente mescolando dei prodotti in serie. Vesto una giacca nera Armani ma dei pantaloni rosa-shocking di Dolce&Gabbana, e sono diverso. Ho un mio modo particolare di essere cattolico, e mescolo un po’ di giansenismo e un po’ di adozionismo. Creo musica folk-metal-alternative-gothic-norwegian-post-progressive-satanic-stoner che perirà miseramente dopo il primo CD demo.

    E, mi spiace dirlo, ma il sistema sembra di tipo autorigenerante.
    Forse all’infinito.
    Forse no.

  • Voglio uscire.

    Prendo una di quelle palline di caucciù e la scaravento a terra con tutta la forza.

    Schizza in alto,
    corre lontano,
    segue scie imprevedibili.

    Osserva gli oggetti da ogni angolazione, e senza avere il tempo di rifletterci si ritrova davanti ad un’altra piccola curiosità. Le piccole cose la emozionano, le grandi cose la incuriosiscono. Corre, cerca ancora un’altra sfida alla gravità.

    Poi la gravità vince.
    Vinta, rotola con le ultime forze,
    e spera di essere raccolta ancora,
    per liberarsi un’altra volta.

  • Respawn.

    Nell’angolo più insicuro e uggioso c’è lui. Rannicchiato su se stesso. Le gambe strette fra le braccia. Foto, istantanee di momenti mai vissuti, scivolano leggere come foglie secche.

    Mi guarda.
    Sorride.
    Un sorriso inerme,
    pietoso.

    Mi parla. Lasciando che le parole scorrano lentamente, da sole. Risuonano dolcemente. Accarezzano i capelli, e gli occhi. Chiusi. I suoi occhi invece sono aperti, sfidano la penombra, si cercano intorno sperando di riconoscere una figura familiare.

    Una piccola distrazione.
    Giro lo sguardo verso un altro ricordo.
    Lui non c’è più.

    Resta qualche foto,
    che svanisce tra le mani,
    ricomparendo in altri dove,
    che non mi appartengono più.