• Estemporanea XVI: Strč prst skrz krk.

    L’unica cosa che ho capito con ragionevole certezza di questi giorni è che gli spagnoli in gita ritengono che dentro le macchinette della stazione di Bratislava ci sia un tizio che lecca le monete da 0,50 euro per assicurarsi che non siano, in realtà, 10 corone ceche. Il che, detto tra noi, è una cosa veramente triste. Perché lo sanno tutti che, a parte il colore ramato che ricorda i famosi ramini, ossia quelle disgustose monetine da 1, 2 e 5 centesimi, che chiunque evita di tenere in tasca per non contrarre orribili malattie sessualmente trasmissibili, e che una volta ho provato ad inserire in un bicchiere di coca-cola per due giorni, sebbene non abbia sortito l’effetto desiderato, a parte il rischio di far soffocare e/o intossicare gravemente qualunque sprovveduto intrigato da questo liquido scuro e frizzante in un’invitante bicchiere di plastica, il valore di queste due monete è pressoché identico.

    E comunque qui si arriva alla fine del mese.
    Male che vada si arrotonda vendendo neve fresca per strada.

  • The psychomelodrama manifesto.

    Partiamo dal presupposto che siamo nient’altro che gocce. La maggior parte annega beata in un oceano putrido. Acquiescente, si mescola alle altre e diventa indistinguibile, fino alla morte.

    Qualche goccia cerca di affrancarsi. Evapora, si eleva rispetto alle altre, le guarda con dispiacere, e vola via. Informe, destrutturata e con una densità di una debolezza senza pari, finisce per aggregarsi alle altre, diventa nuvola, e sembra una forza estesa, determinante. Finalmente può oscurare il sole abbagliante, far vedere le cose così come sono. Ma le gocce, laggiù, biasimano questo modo di fare: il sole acceca così bene, dannazione, che bisogno c’è di privarmi della cecità? Che bisogno c’è di guardare? Cosa c’è, poi, di tanto importante da guardare?

    Le nuvole, poi, sono così delicate. Si muovono a seconda del vento che tira. Quelle che oppongono resistenza, alla fine, saranno condannate a scontrarsi con le altre. Pioverà. E le gocce torneranno giù.

    E queste gocce – questa è la parte che fa più incazzare – queste gocce torneranno nell’oceano putrido. E, per quanto siano riuscite ad affrancarsi, affogheranno nel disprezzo delle altre. Il loro puro contributo sarà minimo rispetto al resto. E tutto tornerà come prima.

    Le rivoluzioni portano ad altre rivoluzioni, controrivoluzioni e sconfitte. Le riforme portano ad obiezioni, controriforme e sconfitte. Prendere coscienza… è un concetto fuorviante. Prendere coscienza di cosa? Della verità? Quale verità? Scegline una a tuo piacimento, e portala avanti come una fede, come un assioma, fino alla morte. Evangelizza il tuo pensiero: potreste diventare una moltitudine, un pensiero unico. E sarà quello giusto? Cosa lo renderà più giusto, più vero, degli altri? Il fatto che di essere il pensiero dominante? Il più conveniente? Il più piacevole? Il più socialmente accettabile? Il più facile?

    Quindi.

    Continua. Continua a pensare di testa tua. Goditi la tua specificità personalmente accettabile.
    Oppure no, continua a lasciare che a te ci pensi qualcun altro. Goditi la tua omogeneità socialmente accettabile.

    In ogni caso, amico mio, non servirà a un cazzo.

  • Estemporanea XV: STFU!

    Se da migliaia di anni si continua a ripetere “mala tempora currunt”, ci sarà un motivo.
    Quest’anno, per esempio.

    Cosa resterà di questi anni zero?

    Una riforma costituzionale o un lodo risolutivo?
    Nell’attesa, preghiamo.

  • Atmosfera.

    Due più due non fa quattro.
    Neanche cinque.

    Fa 42,
    diviso per il numero di amori perduti,
    moltiplicato per il numero di amori mai realizzati,
    meno il numero di esperienze mai vissute,
    elevato all’enorme numero di ricorsi.

    La vita è sopravvalutata.

    L’universo è incline all’implosione.
     

  • La soluzione delle soluzioni è qui.

    Bene.

    Sappiamo tutti che il peggio nemico del ventunesimo secolo non è l’AIDS, né l’influenza aviaria, né tantomeno questa patetica H1N1. Beh, a pensarci bene, nell’ultimo caso il nemico c’è ed è il vaccino, ma tant’è. Il vero nemico del ventunesimo secolo è autorun.inf.

    Nata con Windows 95 per rendere i CD dei videogiochi e altre simili porcherie a prova di idiota, la funzionalità AutoPlay si è rivelata una manna dal cielo quando si è scoperto che si poteva applicare anche alle chiavette USB: ormai il floppy è morto e quasi sepolto, e con lui anche gli allora temutissimi virus che si annidavano nel settore d’avvio (il principio era semplice: inserendo il floppy, il computer doveva leggere per forza il boot sector, e – tac! – ciappa il virus!). Adesso invece i virus si avviano con stratagemmi molto arguti in questi nuovi supporti removibili, sfruttando sia l’utonto che il navigato.

    Ora, è ovvio che la soluzione principale per proteggere il proprio computer è – a parte avere un po’ di sale in zucca – disabilitare la funzionalità di AutoPlay, così che il proprio Windows non vada a seguire le istruzioni dettate nel file autorun.inf e, di conseguenza, le chiavette USB infette diventino magicamente portatrici sane di schifezze. Certo, sempre che uno non vada proprio a cercare l’eseguibile col lanternino.

    Ma come evitare che la propria chiavetta possa diventare, a sua volta, un crogiuolo di porcate subito dopo averlo messo nel computer del collega?

    Si tratta di un trick tanto semplice quanto efficace: creare una cartella autorun.inf.

    I presupposti sono tre:

    1. Ad una cartella posso dare qualsiasi nome voglia, figuriamoci se "autorun.inf" darebbe problemi;
    2. Il virus potrebbe sovrascrivere un file, ma non una cartella;
    3. A Windows non gliene frega più di tanto se il file autorun.inf non è un file leggibile.

    Come fare?

    1. Inserire la chiavetta USB;
    2. Ok, sarà sicuramente piena di schifezze: scopri come pulirla, perché non è compito di questo memo;
    3. Aprire il Prompt dei comandi (Start, Esegui…, cmd, OK);
    4. Scrivere X: dove X è la lettera corrispondente alla penna USB (sarà F?);
    5. Scrivere mkdir autorun.inf (se non funziona significa che c’è già, tonto!);
    6. Scrivere attrib +s +h +r autorun.inf per renderlo file di sistema, nascosto e di sola lettura;
    7. Fatto!

    La prova del nove sarà andare dal collega col computer impestato di minchiate fino al midollo, inserire la penna USB e poi tornare sul proprio computer (dove avrete avuto l’accortezza di disabilitare l’AutoPlay, spero) per vedere se compaiono strani file nascosti. Per scoprirlo basta vederli ordinati per data, usando il comando dir /A /OD dopo il punto 4. Se tutto va bene, anche se ci saranno strani file, la cartella autorun.inf continuerà ad essere un’innocua cartella.

    Ovviamente "la soluzione delle soluzioni" è una chimera. Basta che il virus si prodighi di cancellare la cartella autorun.inf e potrà benissimo creare un nuovo file. Ma attualmente è un’eventualità rara, e il punto 6 dovrebbe dare una mano ad evitare che accada.

    Mi sento un geek molto old-school, devo ammetterlo.

  • Intro a posteriori.

    Allora.

    Siamo arrivati alla frutta. Anzi, alla buccia della frutta. Il post autoreferenziale. Perché i significanti sono pochi, i significati sono tanti, tutto quello che c’era da dire è stato già detto e ridetto, e quindi tutto quello che potrei dire sarebbe solo riproporre un qualcosa di già detto, con il rischio che venga pure citato per plagio o banalismo.

    [Nota: nessun contenuto banale è stato maltrattato per giungere alla parola "banalismo"]

    Tutto quello che volevo dire è che… no, scusate, ma poi alla fine di che stiamo parlando? Questo blog forse è stato sempre autoreferenziale, in qualche modo. Piccole esperienze che si tramutano in fotografie. In parole. Fotologie.

    Vabbè, magari un po’ fotoritoccate.

    Per esempio. Ieri sera.

    Ad un tratto arriva Mino. Un tizio alto, robusto. Ostenta sicumera, ma il labbro nervoso fa trasparire una fondamentale insicurezza. Si avvicina con passo pesante, molleggiando insieme al suo bomber. E insieme al pellicciotto del suo bomber. E insieme al suo seguace. Mario è basso e tarchiato, barba e capello leccato, un orecchino all’orecchio. Senza nichel, non si sa mai. Se avesse la coda scodinzolerebbe come un carlino.

    – Ecco i ricchionazzi – grida Mino, nell’imbarazzo generale.
    – Ha-ha, Eccoli! – gli fa coro Mario, nell’indifferenza generale.

    Mino bofonchia qualcosa al primo conoscente a portata di bofonchiamento, un ragazzotto ansiogeno che cammina avanti e dietro tra uscio e vetrata del locale, succhiando avidamente la sua sigaretta nella speranza che il fatidico gol non si realizzi proprio ora. La sua assenza potrebbe essere rilevante per le sorti della sua microtifoseria. Mario intuisce il suo disagio.

    – Comunque è colpa sua se siamo arrivati in ritardo – gli sussurra con aria complice.

    Giorgio lo fissa per qualche secondo, deve ancora capire se è scemo o lo fa apposta ad essere così irritante. Questi due larve potevano anche non venire proprio, chissenefotte. Non sono di certo più importanti di me.

    In sostanza è vero che la vita è un racconto. E il racconto è una vita. Possiamo dire che ogni post di questo blog sia un pezzetto di vita. Che a volte si espande in due, tre, dieci post. Se facessi come alcuni blog che, intelligentemente, mettono solo un post per ogni pagina, sarebbe più chiaro. E magari potrei anche ingrandire un po’ il font, visto che 11px sono un po’ pochetti.

    E invece i caratteri sono piccoli piccoli, di quelli che uno si scoccia a leggere tutta ‘sta roba.
    E i post sono tanti, di quelli che uno si scoccia a leggerli tutti.

    Ma io ho bisogno di spazio.
    E quindi anche il mio blog.

  • Scarites levigatus.

    – Sono un angelo.
    – Non hai le ali.
    – Vabbè, un angelo ammezzato.
    – Ammazzato.
    – Non sono morto.
    – Beh, prima o poi…
    – Ma muori tu! Tanto non te ne frega niente.
    – Questo lo pensi tu.
    – Non ti stavi per buttare di sotto l’altra sera?
    – Stavo imparando a volare.
    – Ti insegno io, sono un angelo!
    – Non hai le ali.
    – Sì, ma lo so come si fa.
    – Non è possibile. Noi siamo inadatti al volo. E se fossimo adatti al volo, probabilmente saremmo inadatti alla vita sulla terraferma. Ogni cosa deve andare al suo posto. Il piccione schiacciato da una macchina, il fagiano fucilato, l’uomo da, chessò, una turbina.
    – Io sono quello che voglio essere. Anche tu, ovviamente. E se voglio essere adatto al volo, sono adatto al volo.
    – Non hai le ali.
    – Non c’entra nulla. Se ci lanciassimo dal tetto di un grattacielo, potremmo sperimentare il volo per, butto lì, 20 secondi. Inoltre non è detto che muoia. Un tizio è caduto da una cinquantina di piani ed è ancora vivo. E poi, hai presente l’uomo pipistrello?
    – Batman?
    – No, no, un tizio che aveva ha una tuta speciale e grazie a quello riesce a volare come se avesse un deltaplano incorporato. Forte eh?
    – Sì, ok, ma tu non hai le ali. Non. Hai. Le. Ali. Non capisci. Non puoi causare il volo, come fa il piccione quando fa un saltino, sbatte le alucce e – voilà! – vola. Tu puoi soltanto buttarti di sotto e sperare che dopo 20 secondi non muoia.
    – Lo so.
    – Ecco.
    – …
    – Vuoi un altro po’ di salvia?

  • Portrait d’un oiseau.

    Sono plasma, contenuto addensato, rabbia fàtica e materica che erutta come vomito acido sull’epidermide.
    Poi sono contenitore, scatola vuota, la pelle non regge, il freddo mi inghiotte.

    Tremo. Non tremo. Ho paura.

  • Doubt dub.

    Il vero problema è che vedo tutto come estremamente velleitario, e la verità non è altro che il rovescio della medaglia che prendiamo per vero, per induzione, confrontando l’ignota novità con i rassicuranti precedenti.

    In sostanza, quello che riteniamo vero è quello che riteniamo accettabile, coerente con quello che sappiamo già essere vero. O che, per meglio dire, abbiamo deciso che era vero quando, a sua volta, l’abbiamo ritenuto coerente con quello che sapevamo già essere vero. E via dicendo.

    Quindi c’è una sorta di causa prima, di prima verità che confrontiamo per aggiungerne altre.

    Ma se quello che sappiamo già, questa verità prima, non fosse coerente? Riusciremmo mai a capirlo davvero? Forse l’abbiamo presa per vera così dogmaticamente solo per fiducia? E quindi dovremmo continuare a prendere per assunto che sia vero o falso? Oppure ha senso cercare risposte? E se non ci fossero?

  • Estemporanea XIV: A Marrazzo piace il cazzo.

    La foga televisiva dei reality sembra essere diventata una sorta di boomerang contro quei personaggi che questa TV l’hanno creata e fomentata.

    O forse, più semplicemente, sanno bene che un puttaniere espiatorio val bene un governo sottobanco.

    Che prosegue imperterrito anziché sfasciarsi a dovere.

    Che finale imbarazzante.