• Estemporanea XVII: Attenzione, solita lagna anti-berlusconiana a seguire.

    La cosa che mi sembra più avvilente è che, quando l'Era Berlusconi sarà finita, quest'uomo sarà ricordato. A lungo, forse addirittura per sempre.

    L'America lo liquiderà come una marionetta. Il resto del mondo come un giullare. L'Italia come un Anticristo, ma che in fondo è uno di noi. Io lo ricorderò come il più furbo dei furbi, un Italiano per antonomasia, un dittatore illuminato che ha saputo mettere sotto scacco le ultime tre generazioni, accreditandosi il benestare dei più potenti per farsi perdonare qualsiasi marachella, e anestetizzando le masse perché ne ignorino l'effetto distruttivo.

    Quando Berlusconi se ne andrà, lascerà un sistema di acquiescenza dal quale molto probabilmente sarà difficile guarire. Un sistema che preferirà continuare ad aderire al paradigma televisivo, che a sua volta continuerà a seppellire i fatti sotto una caterva di fatterelli, affinché tutti abbiano la sensazione precisa che i problemi ci siano ma siano troppo lontani perché richiedano davvero una soluzione. Un sistema che desidererà il cambiamento, ma continuerà ad aspettare che sia qualcun altro a farlo. Un sistema che neanche le nuove tecnologie sono state in grado di scardinare davvero, né lo farà.

  • Ἀλήθεια ἔρωτος.

    Desiderare ciò che non si può avere. Una condizione prettamente umana, considerato che dopotutto è proprio quello che ci permette di progredire.

    Desiderando ciò che non possiamo avere, lo idealizziamo, beatifichiamo, lo mettiamo al centro dei nostri pensieri. E – ecco il punto focale – il desiderio si amplifica, come in un circolo vizioso, quando cominciamo a caricarlo di aspettative. Aspettative che diventano tanto più grandi quanto più l'oggetto del desiderio si mantiene distante nel tempo. 

    L'adagio "se tiri troppo la corda si spezza, se la tiri troppo poco non suonerà" si applica in questo contesto in maniera perfetta: se le aspettative sono troppo basse, l'oggetto perderà interesse, se le aspettative sono troppo alte, esaudire il desiderio diverrebbe una tale sfortuna, perché un istante dopo non ci piacerebbe già più. Come essere in bilico sul parapetto, pronto al bungee-jumping, e giusto un secondo dopo esserti lanciato, improvvisamente, voler tornare indietro – non per paura, ma perché ora che hai ottenuto quello che volevi l'impossibilità di tornare indietro in quel preciso istante è un'idea di gran lunga più attraente.

    L'oggetto desiderato, quindi, deve sapersi far desiderare con moderazione. Continuare a fomentare il fuoco del desiderio da una parte, tenere viva la speranza che l'impossibile diventi possibile dall'altra. Si tratta di un equilibrio così delicato da richiedere un esercizio costante da parte del desiderato, e abbastanza sangue freddo da affrontare adeguatamente la frustrazione del fallimento da "corda spezzata".

    Fino a che punto il gioco dovrà andare avanti? Dipende, ovviamente, dal fatto che l'oggetto desiderato intenda essere realmente raggiungibile o meno. Se sì, dovrà concludersi relativamente presto, altrimenti potrà proseguire ad libitum.

    In tutto questo dobbiamo considerare un ulteriore fattore: così come il mondo è fatto da un insieme di singole azioni volontarie e involontarie che si intrecciano in modi complessi e quasi imprevedibili (il caso), così anche i desideri sono persi in ciascuno, e dunque quello che possiamo o non possiamo avere è, in molti casi, dipeso da quello che qualcun altro fa o desidera (il destino). Coscientemente o non, qualsiasi cosa desideriamo (e, di conseguenza, facciamo), qualora realizzato, andrà molto probabilmente a scontrarsi col desiderio di qualcun altro, che diventerà inesaudito. Il che potrebbe lasciare l'altro indifferente o in una profonda frustrazione, dipende essenzialmente dal grado di intensità con cui l'altro desidera la stessa cosa rispetto a noi.

    [Sì, in questo caso potremmo anche considerare giusto, in genere, che chi più desidera più meriti, e che addirittura sia giusto che l'altro, invece, ne soffra; ma questo argomento meriterebbe una più ampia discussione.]

    In altre parole, quando abbiamo ciò che desideriamo – nel senso che o non abbiamo più desideri o siamo riusciti ad rendere quelli impossibili, infine, possibili – lasciamo che il desiderio faccia posto ad un senso di insoddisfazione. D'altra parte, più desideriamo, più il desiderio diventa pervasivo, spingendoci ad azioni che inevitabilmente scombinano il sistema (equilibrio?) circostante.

    In altre parole, ancora: se desidero soffri, se non desidero soffro.

    Cosa scegli?

    [Caveat: tertium datur.]

  • Le violon frémit comme un cœur qu’on afflige.

    Tu sei il bianco e io sono il nero. Tu sei il buio e io sono la luce. Tu sei l'acqua che rinfresca e io sono il fuoco che scalda. La tua esistenza è possibile grazie a me. E la mia grazie a te. Mutualmente ci riconosciamo, soppesiamo, valutiamo, apprezziamo. E infine incartiamo e compriamo. Compriamo le nostre favole e i nostri sogni, li scambiamo, li mescoliamo coi nostri per farne tesoro.

    Camminiamo facendo piccoli passi da gigante, allo stesso ritmo. Con lo stesso vigore. Con la stessa stanchezza. Viviamo come due sfere che rotolano lungo lo stesso binario, alla stessa velocità, incontrando gli stessi ostacoli.

    Io di ostacolo ne ho uno in più.
    Una terra che non voglio,
    e che non mi vuole.

    E quando vado via,
    quando sole torna tra le nuvole,
    odio di cuore che mi manchi di cuore.

  • Remedios.

    Il rimedio è questo. Ancora una volta. O altrimenti non pensare. Ma non riesco a non pensare. Che cosa mostruosa non pensare. E che cosa mostruosa pensare troppo.

    E che cosa mostruosa volere sempre più.
    Molto più di quanto quanto sia possibile.

    Io e te siamo uguali. Fatte le dovute proporzioni, tolte le dovute maschere, e smussati alcuni dettagli. Io e te siamo fottutamente uguali. Forse lo eravamo già da tempo, forse lo siamo diventati insieme. Scivolavamo e inciampiavamo negli errori, ci rialziavamo, studiavamo il passo successivo con cura. Per poi inciampare un'altra volta.

    Fottutamente uguali.
    Fatta un'unica eccezione.
    Io sono più forte.
    Oppure no, più insicuro.
    O forse solo più curioso.
    O velenoso.

    O magari, semplicemente, solo più inquieto.

    Ma adesso un po' meno.

  • Musím spát.

    Dormire.
    E chi dorme?

    C'è ancora tanto da fare. Tanto da guardare. Da leggere. Da capire. Arrivi a un certo punto e ti rendi conto che hai dato per scontato che quello che hai sia nato quando solo hai cominciato a viverlo. Ma quello che vivi viveva anche quando non ne conoscevi l'esistenza (sì, alcuni filosofi mi sputerebbero in un occhio per quest'affermazione così avventata… ma tanto son morti, fanculo).

    C'è ancora tanto da lottare. Per ottenere qualcosa che, in fondo, non si sa neanche tanto bene cos'è. Un'ambizione, vaga e imprecisa, che non appena si riesce a toccare subito scivola via e ti chiede di correre un po' più in là. Uno sforzo in più, fra le risa frustranti.

    C'è ancora tanto da annoiarsi. O divertirsi, ringraziando il cielo di non sentire tutto quello che ero così lontano.

    Presto arriverà una carezza.
    Quella vera.
    E dormirò.

  • Fast, but not overly so.

    – Hai fatto un brutto affare a startene con me.
    – Pensa, lo so già.
    – Eh, sì, vabbè.
    – Ah, no aspetta, questo è il momento serio, vero?
    – Già, momento serio.
    – Ok, aspetta, vado a preparare. Aspetta eh?

    Momento serio.

    Il momento serio è un rituale piuttosto ben noto, che procede lungo una sequenza normalmente ben concordata. Il soliloquista si fa un passo avanti, i restanti – pochi, possibilmente – si fanno da parte, o addirittura escono di scena. Le luci in scena si dissolvono dolcemente, lasciando spazio all'occhio di bue, che ingloba il personaggio nel suo fascio.

    – Ecco, va bene così?
    – Non so, questo bianco è un po' diverso.
    – Bilanciamento del bianco, ricordi? Me lo spiegasti tu. Il bianco e il nero non esistono, ma i tuoi occhi si adatteranno ancora una volta, e il bianco sarà di nuovo bianco per te.
    – Beh sì, in qualche modo.
    – Allora?

    In piedi. Questo è un discorso sulla fiducia. E allora le mani saranno congiunte, in un goffo tentativo didascalico. I gesti che normalmente enfatizzano le parti del discorso, saranno costrette ad un movimento circolare di mani giunte e niente più. L'atteggiamento sarà ostentatamente goffo e incerto, come se si voglia dare ad intendere che sia difficile far venir fuori le parole, quando invece sappiamo tutti che le parole sono già lì, pronte ad essere pronunciate. Pronte ad essere inascoltate. E fraintese.

    – Hai fatto un brutto affare a startene con me. Sono un torrente che traborda a sorpresa in ogni direzione. Tu sei neve, dolce e silenziosa, che si posa e congela tutto in attesa della primavera. Ogni giorno è una lotta per succhiare avidamente fiducia dalle tue labbra. Perché non ne ho in me. Quel poco che racimolo, faticosamente, è per te. Per me, invece, resta poco e niente. Posso avere un po' di fiducia? Per favore. Posso avere un po' di fiducia in te? Voglio lanciarmi nell'abisso ad occhi chiusi. Sarai lì per prendermi? Ma soprattutto, sarò lì per farmi prendere? O, all'ultimo, mi scosterò di poco per sfuggire alle tue mani e cadere? E se succederà, perché?

    Buio in sala.

    – Ma che ne so… andiamo, che è tardi.

    Risate.
    Applausi.
    Sipario.

  • Demócrito de Abdera se arrancó los ojos para pensar.

    Dammi qualcosa di violento.
    Dammi un'opportunità per distruggere tutto.
    Qui e ora.
    Come allora, ancora.

    Vago per improbabili strade in cui fermo volti sconosciuti e indistinguibili, biascico qualcosa, aspetto una risposta che so già essere incomprensibile. Allora scavo a mani nude nell'asfalto, finché le unghie lasciano lo spazio a grumi di sangue sulla carne viva, e poi scavo ancora, e ancora.

    Mi infilo in un tunnel creato da me. Stretto. Profondo. Asfissiante. Sono stremato. Le braccia non si muovono più. Non posso più andare avanti. Non posso più tornare indietro. Sono bloccato in fondo a qualcosa che va in nessun luogo. Mi manca il respiro. Sento la terra arida. Entra nei polmoni. Raschia la gola.

    Alla fine di tutto questo non resterà più niente. Non resterà più luce. Non resterà più alcuna certezza. Non resterà più alcuna sensazione. Lo so già. Lo sapevo già da prima.

    Ma domani ricomincio.

  • A brief history of a generation.

    When we were young, they used to tell us: «Son, you better study, or you’ll be a nobody in your life».

    And so we did. After having spent years studying hard, they said: «Don’t you know that a degree is just a useless piece of paper nowadays? You should have rather learned how to work!».

    And so we did. After having learned some profession, they told us: «What a pity though, all that study wasted to learn such a crappy job?».

    We got sick of that, so we gave up.
    But since we gave up, we got left without a cent.
    So we started to hope again, hopeless.

    At first we were too young and without any experience. Then, after just a while, we were already too old, with too much experience and too many qualifications. Eventually, we managed to find a job anyway. Piecework. Non-payed annual leaves, no illness, no Christmas bonus, no severance pay, no trade unions, no rights. Yet, we struggled to defend that non-job. We had no children, for an obvious sense of responsibility, and we grew up.

    Hence, looking down onto us from their wealthy jobs, easily found in the 60s with just a scrap of a diploma or even less (when life was really easy-winning), they said: «You little spoiled brats, when will you stop being mummy’s boys and have your own family?». And in the meantime we were paying for their retirement pensions, while definitely saying farewell to our ones.

    So we did, we reproduced; but then they told us: «What are you doing? You bear children without any certainty, any job with a permanent contract? Don’t you feel irresponsible towards them?».

    At that point we couldn’t kill them, I guess.

    So we emigrated.
    We went somewhere else, looking for a safe place somewhere in the world.
    We found it. We felt fine. We felt home. Finally.

    But one day, at that very moment we couldn’t expect it less, the “Italia system” failed, and everyone got screwed.

    Hence they told us: «Why haven’t you done anything to prevent it?».

    At that point we couldn’t do anything else.

    «Fuck off!», we replied.

    (translated from: Torto O.G., Breve storia di una generazione)

  • Zusammenleben ungleichnamiger Organismen.

    Se tu sei il piviere egiziano e io il coccodrillo,
    sappi che prima o poi chiuderò queste fauci.
    Con te dentro.

    Accadrà per caso. Un'imprevedibile distrazione. Un inarrestabile starnuto. Una noncuranza, in ogni caso. E allora piangerò. Piangerò lacrime amare, mentre ti spezzerò il cuore. Succhierò il tuo sangue, dolce e puro, e le mie lacrime, aspre e piene di sale che solca la pelle. E la loro mistura risulterà in niente, perché niente resterà dopo. Dovrò deglutire il tuo piccolo cuore, e il tuo piccolo cuore diventerà mio, il piccolo cuore che non potrà più tornare indietro.

    E sarà quando esalerai il tuo ultimo respiro, soffocato dal mio pianto, dal mio ultimo singhiozzo che mi toglierà ogni energia e mi bloccherà il petto, sarà solo allora che ti avrò amato come non ho mai fatto finora. Sarà solo quando sarà troppo tardi.

  • Řehoř řeže dříví z dřinu, dva tři řizy za vteřinu.

    Sì. Un tempo tutto sembrava più bello. Facile. Felice.
    Ma forse, in realtà, tutto sembra più bello un tempo.

    Cerco di non nutrirmi mai di ricordi. Non mi fido. Si evolvono continuamente, destrutturandosi e ricomponendosi in modi imprevedibili e casuali. Titillano gangli diversi ad ogni occasione. E la generale devozione, totalmente immeritata, che ostinatamente gli si continua a garantire, li rende forti della schiavitù a cui ci sottopongono. Ci fidiamo così tanto dei nostri ricordi, e delle sensazioni che ci procurano, da sentircene in balìa.

    Una fregatura perfetta.
    Perfettamente oscena.