• Tumulto.

    – Vuoi forse dire che è necessario, paradossalmente, inseguire i propri sogni per poter conferire alla realtà quell’aspetto tale da consentirci di riconoscerci in essa?

    – Sebbene corretto, non scorgo la necessità di parlare di paradosso. La realtà dipende, in verità, la proiezione del nostro sistema di valori. Detto in altro modo, non esiste un solo modo di guardare alla realtà, ma ognuno ha il suo, e questo dipende da ciò che siamo. Ciò che siamo, a sua volta, dipende da quelle che sono state le nostre esperienze passate. E tra queste la dimensione del sogno ricopre un ruolo importante. Il sognato si accompagna armonicamente al vissuto.

    – Ma se si tratta di una dimensione così differente da quella che viviamo fra un "coma" e l’altro, come può il sogno coinvolgere la nostra visione del mondo?

    – Mio caro, hai mai avuto un sogno nel cassetto?

    – Sì. Volevo fare il fotografo.

    – Ebbene, ad un certo punto ti sei trovato di fronte a due scelte. La prima era quella di inseguire il tuo sogno, e dedicare ogni tuo sforzo ad esaudirlo, scorgendolo così forte e insistentemente presente. La seconda era di accettare già da subito di rinunciarvi, aderendo ad un chissà quale modo di pensare esterno che, volendo, potresti ritenere incondivisibile. Se sei qui a parlare con me, vestito di questi abiti sporchi di calcestruzzo e vernice significa che, magari avendoci pur provato, hai pensato dopo un po’ di tempo che fosse la realtà quella da seguire. Invece io ti dico che avresti potuto inseguire il sogno.

    – Ma ormai è tardi per riprovarci.

    – No. Ricordi? I sogni non hanno tempo.

  • Il sogno del coiffeur.

    Volevo parlare. Ma non riuscivo.

    Sentivo i loro sguardi addosso.

    Coincidenza volle, però, che si presentassero proprio in quel momento sette figure. Una era Socrate, che aveva appena ingerito la cicuta. Poi c’era Nietzsche, che si stava rannicchiando in seno a Schopenhauer che lo accarezzava dolcemente. Seduta in mezzo alla folla si poteva scorgere Moana Pozzi, che non è quella che pensate, bensì la titolare della Manifattura Moana Pozzi scarl. Voltai lo sguardo e vidi anche uno strano animale aggrapparsi sul muretto con i suoi zoccoli, e affacciarsi con le sue tre teste. Ha un non so che di familiare, ma non riesco a ricordar bene chi sia (anzi, chi siano).

    Improvvisamente sentii un’euforia nascere dal punto più interno del ventre e salire, come una sfera d’energia, su per il midollo spinale e scoppiarmi in volto. Tornato cosciente, vidi tutti guardarmi con meraviglia. Guardavo le loro labbra serrate, eppure potevo sentire il loro mormorio. Improvvisamente ero diventato così magnifico.

    Fu allora che cominciai a parlare.

    Non c’erano parole, la mia bocca era ancora sigillata.
    Ma dissi qualcosa del genere.

    Cos’è che ci permette di distinguere la dimensione del sogno, dell’immaginario, dalla dimensione del reale?

    In sostanza è la coerenza.
    Coerenza logica e coerenza temporale.

    Per coerenza logica mi riferisco all’aderenza della connessione logico-sequenziale degli avvenimenti a quelle che sono le strutture logiche del nostro intelletto. In altre parole non riconosciamo il sogno come logico in quanto non riusciamo a trovare una connessione logica o causale in ciò che accade.
    Il nostro intelletto rifiuta (o piuttosto filtra) quello che abbiamo sognato in quanto non può incasellarlo in una sequenza logica di avvenimenti. Ci turbano infatti i sogni che chiamiamo spesso realistici: questi non sono altro se non quelli che possiamo comprendere meglio in quanto costruiti secondo una sequenza logica di avvenimenti, e che potremmo anche riuscire facilmente a raccontare ad altri e, di conseguenza, memorizzare.

    Per coerenza temporale intendo invece la capacità dell’intelletto di collocare temporalmente gli avvenimenti. Chiaramente può anche essere un tempo approssimativo, come il ricordo di "tanti anni fa", o ancora più semplicemente la distinzione fra un passato prossimo e uno remoto.
    Questo nel sogno avviene difficilmente, sia in senso relativo (ad esempio fra un episodio e un altro si può passare in pochi minuti dal giorno alla notte e poi di nuovo al giorno) sia in senso assoluto, nel senso che difficilmente riusciremmo a dire a che periodo della propria vita si riferisce quanto sognato (spesso non ricordiamo neanche tanto bene quando ci è capitato di sognare qualcosa).

    Ma, alla fine, chi ci dice che sia questa la realtà?

    Ovvero, chi ci impedisce di pensare che possa essere, magari, la dimensione del sogno quella "vera", e che in realtà i due mondi difficilmente si incontrano soltanto perché i nostri schemi logici in "questa" realtà sono totalmente differenti rispetto a quelli della realtà del sogno?

    In altre parole, chi può negare con certezza che il nostro cervello semplicemente si rifiuti di concepire l’esistenza di un altro mondo dominato da una logica a sé stante, e che in questo mondo conduciamo una vita parallela di cui non siamo sostanzialmente a conoscenza?

    Provate ad immaginare.

    Se mancasse improvvisamente il requisito della coerenza alla realtà che vedete, ci sembrerebbe di vivere un’unica lunga vita, separata semplicemente da un ciclico coma notturno.

    Una volta conobbi una ragazza che non riusciva a distinguere più il sogno dalla realtà. Il fatto è che non riusciva a dormire da mesi, e per questo la sua mente ogni tanto si sforzava di riposare durante la giornata. Spesso le capitava di avere delle piccole allucinazioni. All’inizio le era evidente che fossero delle invenzioni della propria mente, ma a poco a poco le venne inevitabile dubitarne.

    Non riusciva più a distinguere il reale dall’irreale.
    Perché una percezione del reale ricca di incongruenze non è più realistica.

    Non più allucinazioni, ma sferzate alle fondamenta.

    Avrebbe potuto decidere di uccidersi e non soffrire il peso della sua decisione.
    Sarebbe stata una goccia di incoerenza in un bacino di confusione.

    Tutti rimasero ammutoliti.
    Non capivano.
    Forse cercavano ancora rifugio in quegli schemi così familiari, così rassicuranti.
    Perché era così difficile?

    Eppure a me sembrava tutto così evidente.

    Sentii le mie alucce dare una sferzata nervosa.

  • Il trauma indifferente.

    Eravamo tutti lì, seduti davanti ad un plastico enorme. I partecipanti mormoravano sorridenti, soddisfatti del Nuovo Corso degli Eventi. Una musica in sottofondo spingeva alcuni a danzare sul posto, tanto che uno di quelli, che finora era stato sempre zitto, improvvisamente si era alzato sulla sedia e aveva cominciato a ballare nell’ilarità generale.

    E io mi sentivo così bello nel mio vestitino nuovo. Con due fessure appositamente ritagliate sul dorso. Sedevo alla destra del mio nuovo Padre. Alla sinistra, incatenato alla Colonna dell’Infamia, c’era l’Architetto che, invece, guardava in lacrime i pezzi del suo plastico gettati ai piedi.

    Fu in quel momento che il committente divenne finalmente Committente, e iniziò a parlare.

    «Bentornati. Beh, in effetti dovrei dire bentornato a me stesso. Devo ammetterlo, ho compiuto un grande errore, ed è stato quello di trascurarvi. Purtroppo avevo lasciato il mio progetto in mani adunche e negligenti, e i risultati sono stati pessimi.

    «Tuttavia non farò lo stesso errore. Ho deciso di istruire personalmente e mettere a direzione dei lavori colui che vedete alla mia destra. Vi vedo interdetti. No, non fate così! Non vi spaventi il suo aspetto! Scoprirete, invece, che vi saprà amare, e con la collaborazione di tutti, in particolare del Gran Maestro degli Scalpellini, vedrete quanto sarà ben più entusiasmante tornare a lavorare per questo progetto!

    «E se questo non dovesse bastare, pensateci: state costruendo la vostra casa. Regalerò ad ognuno di voi un appartamento, e qui vorrò che veniate ad abitare. La coesistenza tra voi in questi mesi diventerà così felice che sarete voi stessi a chiedermi di estenderla al di fuori dell’ambito lavorativo. La coesistenza pacifica di tutti voi, senza rinunciare alla vostra specificità. Pensate che non sia possibile? Vedrete che meraviglia, ve lo prometto.»

    Tutti rimasero senza parole. Non era timore, o sfiducia. Ma non era neanche estasi o euforia.
    Erano tutti distratti dallo sguardo di quell’essere ripugnante che implorava di amarli.

  • Cui prodest?

    Bella domanda, Dorian.

    A nulla.
    Però alla fine uno sul blog si sputtana.
    E quindi così ci si piglia anche un po’ per culo, ecco.

    Vabbè.

    Primo. Le assicurazioni mi temono.

    13 ottobre. Viale Ennio. La patente aveva poco più di due settimane di vita. Asfalto bagnato. Curvetta. A gomito. In terza. Non c’è bisogno di aggiungere altro.

    Secondo. Toglietemi tutto, ma non il mio peluche.

    Ce l’ho da quando ero piccolo, e tempo fa feci addirittura carte false per sottrarlo alla damnatio memoriae avviata da mia madre in una fase di rivoluzione casalinga.

    Terzo. Non sapevo di chi fosse Play That Funky Music White Boy.

    Tutta colpa del piduepì. Quando cercai questa canzone inizialmente risultava attribuita nientemeno che al godfather James Brown, poi l’ho trovata attribuita a KC and The Sunshine Band, Kool and The Gang, Sly and the family stone e una miriade di altri gruppi soul degli anni ’70. Dopo qualche annetto speso nella convinzione che la canzone fosse del primo, ho scoperto con umile vergogna che in realtà la canzone che tanto adoro e alla quale ho dedicato il titolo di questo blog non è altro che di Wild Cherry. E il fatto che, praticamente, sia famoso solo per questa canzone (giuro, cercate Wild Cherry sul muletto), dovrebbe farmi vergognare anche un tantino di più.

    Quarto. Odio chattare.

    E chi mi vede costantemente "Non al computer" su MSN sa di cosa sto parlando.

    Quinto. Quando si tratta di ‘ste cose mi flippo.

    Ragazzi sarà da 12 ore che mi sto spremendo le meningi per fare questo post… non posso rovinarmi il fegato a cercare cinque segreti inconfessabili da confessare! Diventa …sfiancante! ^^

    E ora invito a prodursi nella stessa esibizione dK, Jere’, Ubrys, Hubrys e Jensen. In realtà mi divertirebbe molto di più invitare un po’ tutti, ma la regola ne impone cinque e quindi al limite sarà per la prossima volta e nun v’accarcate.

  • Sento freddo.

    Ya basta.

    Parole ghiacchiate. Le vedo fendere l’aria che sanguina.
    Poi le parole spariscono, gli squarci – com’è ovvio – restano.

    Crack.

    E il problema in realtà è molto semplice. Quando arrivò il committente e presentò il progetto che aveva in mente, tutti gli astanti rimasero folgorati dalla magnificenza e lungimiranza della creazione che si parava dinanzi alle loro coscienze, obnubilate dalle parole convincenti e carismatiche del latore. Poi però, come succede quando le intenzioni sono solide ma la sostanza è fumosa, ci si rese conto ben presto che la costruzione procedeva in modo difforme.

    Allora successe che l’Architetto proprio in quel periodo aveva ricevuto un succulento acconto di quello che il committente aveva promesso alla fine dei lavori e, anziché scappar via col bottino come farebbe qualsiasi bravo figlio di puttana, aveva ben pensato di far leva sul suo buono sforzo creativo e, con pazienza, aveva riunito in commissione tutto il personale per stabilire una variante del progetto. Il committente in tutto questo non proferiva verbo. Giustamente, poteva succedere che l’idea iniziale potesse venir modificata in favore della sua effettiva realizzazione, quindi non c’era altro da fare che vedere come sarebbe andata a finire.

    Però, dopo un po’ di tempo, la situazione degenerò. Il Gran Maestro degli Scalpellini indisse uno sciopero perché si era fatto uno sondaggio interno all’azienda e si era scoperto che il personale era depresso. Qualcuno si sarebbe anche tolto volentieri la vita. Altri piangevano. Altri ancora si nascondevano per evitare di mostrare le loro crisi nervose. In sostanza ci si rendeva conto che le cose non andavano per il verso giusto, che il progetto iniziale era stato modificato in qualcosa in cui nessuno si ritrovava più, e l’entusiasmo iniziale si era bruciato ed era sepolto sotto qualche mattone.

    Era il caos. L’Architetto chiamava in continuazione il Gran Maestro degli Scalpellini per trovare una soluzione, ma quest’ultimo continuava a non trovar nulla soddisfacente, minacciando piuttosto di chiamare i sindacati che avrebbero sicuramente invocato la procedura di raffreddamento. Non aveva il coraggio di chiamare il committente, perché sicuramente avrebbe deciso di annullare tutto e, a titolo di risarcimento, avrebbe anche preteso indietro quel congruo acconto che, con gran fiducia, gli era stato dato preventivamente.

    Una sera dal freddo glaciale, però, il committente arrivò a sorpresa in cantiere.
    E si rese conto rapidamente della situazione.

    Lentamente, tutti stavano morendo assiderati.

    Entrò in una stanza buia. Accese il faretto che era per terra, e notò una presenza sul pavimento. Aveva delle ali attaccate perfettamente alla schiena, ma erano spezzate e non avrebbe volato più.

    Si avvicinò. Cominciò a sentire un mormorio. Si avvicinò ancora di più.

    Con un filo di voce, quella presenza stava mormorando continuamente, implorante, di curare le sue ali.

  • On the last good day of the year.

    Fresh old iBook so many things done I could forget you in 2015 Belle è un cagnolone delicato I’ve been to this place once again love you come back so many things thought Play that funky legs white boy. please feed your head this activity sucks knees I want to call this place home, home, home I miss you I could do this thing tomorrow I must do this thing today wanna be socially correct wannabe too late change that funkin’ strings with fresh new ones play this pay that go-CC-go! plastic Tokyoish movements so many things to do too slow sometimes too quick sometime else but time won’t save our souls «Non hai tu forse fatto a pezzi Raab, non hai trafitto il drago?» I won’t stop smoking I won’t stop talking I won’t stop st-tt-op-to-top-ppp 2046 reasons to look for warmth say hello to our 3 HP Vectra PCs in the new born Crush-lab LAN section, oh ma’ god wot a mess want a reflex want a Warwick want this, want that want nothing primitive lifes in primitive wine sweet kisses in sweet coffee tea + kräuteröl almond tea inspiration Santu Paulu miu di Galatìna, Galàtone, gàlata morente one new pleasing present in the blog, good people for good things. Intento specialistico.

  • Roma, mora amor.

    Eh no, cara. Bisogna ammetterlo: sei un’oscura vecchia baldracca. Ti sei fatta sedurre, plagiare, violentare e influenzare da tutti quelli che son passati dalle tue parti. Da più di duemila anni. Inaccettabile.

    E poi sei troppo grande. Grande? Che dico. Immensa, piuttosto. Non è possibile dover spendere tre giorni interi per non capire che un’infinitesima parte di te.

    «Tutta quella città, non se ne vedeva la fine. La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?»

    (Alessandro Baricco, Novecento)

    Che poi, per quel poco che si riusciva, alla fine sembrava anche possibile conoscerti in fretta. Addirittura, cominciavi a suonare in qualche modo familiare. Però, sinceramente, potrei viverti soltanto se potessi prima massaggiarti i piedi stanchi con gli olii e poi, soprattutto, soffiarti sopra un velo di farina bianchissima che copra e fissi immobili tutte le macchine, tutti gli autobus, tutti i treni della metrò e tutti i tassì.
    Il tempo.
    E magari, visto che ci siamo, tutti i camerieri sibillini, più quelli avvinazzati, più quelli che ti schiaffavano due pezzi di pizza che grondano olio [avete presente il ciccione che spreme l’olio della pizza dell’amico fifì sulla sua in E alla fine arriva Polly?] sul piatto della bilancia senza carta né altro, altresì definibile con l’espressione "con la scorza e tutto" [avete presente l’HACCP? Ecco, loro no], e poi ti spingevano a mangiarli sul retro, il che faceva molto scena da bettola newyorkese, con tanto di true-american-people che mangiava zitta zitta e mogia mogia come nei film.

    La bettola. Potevo dimenticarmene? Il titolare si mostra così soddisfatto nella sua foto insieme a Lino Banfi. Secondo me sarà stato l’averlo ospitato al suo hotel a dare quella svolta penosa alla sua carriera. Il fu Canà, al gelo della stanzetta, mentre l’acqua scorreva già da 10 minuti senza che diventasse quantomeno tiepida, avrà capito che i b-movie trash non pagavano, e quindi era arrivato il momento di cambiar genere. Se è così: grazie Di Rienzo, la tua pensioncina ha strappato al cinema d’altri tempi un fenomeno d’altri tempi.

    E comunque i termosifoni potevi pure accenderli prima che mi raffreddassi.
    Infame. E pure mortacci tua.

    Però il vino de’ li castelli era proprio buono. E anche tu, che ancora una volta hai insaporito e impepato graziosamente questo quadretto agrodolce, dall’inizio alla fine.

  • Testoni.

    Non saprei come descrivere questi due personaggi.

    La prima immagine che mi viene in mente è la faccia che mi parò davanti quella famosa volta in cui mi voleva proporre di comprare a società il libro di armonia jazz. E chi se la scorda. Irripetibile. In alternativa c’è quella foto che mise come avatar su MSN che prima o poi dovrò registrare di nascosto e mettere sul suo blog come commento. Non può restar nascosta ancora a lungo.

    Per il secondo personaggio sicuramente l’ultima immagine tremendamente esplicativa sarebbe la sua faccia al buio delle lampade UV. Si presentava ogni tanto con un sorriso a 64 denti e gli occhi sgranati, divertito nel vedere le facce angosciate che osservavano questo fenomeno paranormale mezzo luminoso come una lampadina.

    Tra l’altro, manco a farlo apposta, proprio quella volta ci intrippammo a vedere l’effetto di queste lampade sulle sigarette (chi l’ha sperimentato sa quale texture particolare si forma, e i più arditi resterebbero a flipparsi sulle venature molto, molto a lungo) e ci siamo ricordati di quando a Ypsos queste lampade abbondavano nei discopub ricchi di tamarri e di quadrature napoletane. Ah, la quadratura napoletana.

    Comunque sia siete dei maledetti guastafeste. Ma vi adoro lo stesso.

  • Ed è per questo che ti odio.

    Oggi mi sono ricordato all’improvviso di te.

    Di quante cose ho fatto con te, di quanto ti vedevo splendente e lontano, di come ci tenevi a me e volessi vedermi rifulgere in un futuro che si prospettava, salvo qualche scaramuccia, roseo.

    Mi son ricordato di quanto correva la mia fantasia, e come a volte mi assecondassi e a volte mi prendessi in giro e mi davi piccoli traumi di bimbo. Mi son ricordato quando ti chiamavo in continuazione. Il due-e-quattordici o, se non c’eri lì, il due-e-diciassette-ma-solo-se-proprio-necessario. Mi son ricordato di quando ti chiamai disperato e subito dopo arrivò lei e mi costrinse ad agganciare mentre si consumava una piccola tragedia. Mi son ricordato tante cose, tutte insieme.

    Poi ti ho visto. E mi son ricordato di dieci anni fa. Quando, guardando tuo suocero andar via, mi resi conto che non splendevi più. E all’improvviso, solo in quel momento, mi resi conto che ormai eri vecchio, stanco. E il futuro non si prospettava più così roseo, né pensavi più che mi avresti visto rifulgere.

    Ora sei solo un vecchio isterico che straparla, urla e borbotta.
    Triste, rassegnato e senza speranze.

    Ed è per questo che ti odio.