• Nightly balcony dreamaholics.

    Picture by fooorzaaa. Hand-made. Red ball-pen. Retouched. Deve smetterla di fare così caldo. Devo smetterla di guardare la vita scorrere in modo così incosciente (indecente) sotto il balcone sospeso sul vuoto. Sospeso lungo la linea retta, traiettoria di un uovo-proiettile sparato verso il luogo in cui non vuoi essere né oggi, né domani.

    E in quell’ammasso informe di mani così distrattamente indaffarate nel salutarti ritrovi le conseguenze di ciò che sei stato. Di ciò che sei. Inerme robboso in balia di onde sotterranee. E vorresti nasconderti dal reggaeton e dal punk ’70, vorresti tornare ad una chitarra che non suonerai, o un libro che non leggerai.

    O ad una penna stanca di scrivere.

    O ad un clacson irritato.

    Nottata calda e nostalgica. Come un tempo. Mai come un tempo. Sul balcone, caraffa di Heineken semi-surgelata. In attesa di un treno. O di un meteorite che si abbatta sulla carrozza motrice (ah, le cause di forza maggiore). Prendo una penna. Scriviamo! Non mi va di scrivere. Vabbè, io comincio, poi vedi te. Scrivo. Scrivo. Scrivo. Vediamo. È inutile che cerchi di leggere, ho scritto sul ginocchio, non ci capisce una mazza. Massì, tu intanto leggiti questo. Sento movimenti inconsulti della penna sul foglio. Ecco. Ma hai disegnato? Essì. Ah ok, allora poi gli do’ una ramazzata di scanner. Essì. Ah ok. Mi piace, sai? Riassume.

    (Picture: hand made by fooorzaaa)

  • Ya le temps.

    Mi ricordo di un cucciolo.

    In una gabbia di cristallo. Le stagioni passavano, per lui erano indifferenti. Sempre piccolo e atrofico. Tremava di freddo, eppure lo baciava il sole più caldo. Sguardo contrito. Improvvisamente si trasformava in un’espressione che vomitava odio e rancore senza motivo.

    La sua piccola prigione, trasparente e impenetrabile. Il suo spazio vitale. Aveva sempre di che mangiare, ma non mangiava. Aveva di che dissetarsi, ma il suo muso era sempre rinsecchito. Eppure viveva, perché era il suo ostinato tenersi stretto contro le pareti a dargli vita. Probabilmente, se qualcuno mai fosse riuscito a liberarlo, ne sarebbe morto. Guizzava rapidamente, per questo terrore, al lato opposto di chiunque tentasse di avvicinarsi.

    Eppure i suoi occhi volevano parlare. Urlare. Rabbia, delusione, errori, senso di vuoto, di abbandono. Non certo solitudine: qualsiasi passante si prodigava puntualmente nel tenergli compagnia. Per rompere quel muro di vetro, piccola enorme distanza, entro cinque minuti.

    Uno di questi fui io.

    Improvvisamente ebbi la fortissima impressione di esser riuscita ad entrare in quella gabbia. Lo presi in grembo, lo accarezzai, lo strinsi forte a me, con tutto l’amore incondizionato che potessi offrirgli. Si rintanò, ansioso, fra gli anfratti del mio abbraccio, in cerca di quel calore che desiderava così tanto. Sarebbe anche morto in quello stesso momento, pur di congelare quella gioia in un istante infinito.

    Invece la morte congelò le sue sofferenze. L’impressione finì ben presto, vidi in realtà il suo sguardo atterrito. Ringhiando, mi scrutava dalla parete opposta. Scappai. E ripassai pochissime altre volte: non vederlo poteva farmi meno male, o illudermi che ora potesse star bene. Ma l’ultima volta scoprii che aveva deciso di non poggiarsi più ad alcuna parete. Né mangiare. Né bere.

    Impenetrabile gabbia funeraria.

  • Per i miracoli ci stiamo attrezzando.

    Che strano.

    Posso decidere di smettere di mangiare.
    Di fumare come un forsennato.
    Di bere (sento mormorii di disapprovazione).
    Di scrivere, parlare, guardare.

    Posso decidere di pensare a questo o quello.
    Di suonare il basso piuttosto che fare il beatbox in delay.
    Di partire o restare.
    Di uscire o fissare il monitor rigirandomi i pollici.
    Persino di morire. O, più semplicemente, sputare in faccia alla fortuna, correndo a 140 col freno che potrebbe abbandonarmi da un momento all’altro, perché… ebbene sì, the Scooter Boy, anche in versione automobilistica, resta sempre e comunque un amante del rischio (leggasi cazzone).

    E posso decidere di fare tante e tante altre cose. Forse quasi tutto.
    Però tutto questo è davvero niente, in confronto a quello che non riesco a decidermi di fare.

    Ed è come la sensazione di conoscere una persona,
    ma non volersi poggiare a nessun ricordo.
    Conocer la desconocida.

    Εμπαίγμα.

    Se non fosse per quel maledetto scanner ora ci sarebbe un’altro post.
    Altro-paio-di-mani, perdonami e porta pazienza. Che tanto di pazienza ne hai.

  • The nobile art of the scratch.

    Pour faire le portrait d’un albatros.

    Nella terra di un Rudy sovrosannato si trincea il baluardo di un’estate che si ostina a non voler morire. Un’estate che cammina, lenta come la processione di un santo, incosciente come il normale, col suo seguito svolazzante di vanità. A volte cerco di trattenerne qualcosa per la coda, ma ben presto scivola via come se fosse d’aria.

    Ma certamente non ci si sta con le mani in mano. Anzi, ci si cerca di organizzare a piccole dosi, nell’attesa che, come tutte le cose, anche questa finisca. Per poter dire, finalmente, di essersela lasciata alle spalle.

    Medusa pietrifica.
    Il satiro sbriciola.
    Il vento spazza via.
    Il mare torbido lava.
    Il rum purifica.

    Piccola catena di smontaggio per un piccolo fuggitivo. Per fare a pezzi quei cristalli di zucchero (bada bene, non di miele), che inevitabilmente rotolano e, come una palla di neve in un cartone animato, diventano sempre più grandi, sempre più compatti.

    Arriverà presto l’inverno delle piccole vere gocce emozionali?

  • Estemporanea II.

    Scene I.

    Dopotutto hai sempre goduto di ottima salute.
    Sarà per questo che, l’unica volta in cui ti sei fatto male sul serio, hai deciso di provvedere da te?

    Scene II.

    Scoppia.
    Piantistericarisata.
    Altro che Red Bull.

    Okay baby.
    Davvero.

    Anzi, per coronare l’occasione piazzo pure la faccina. Tò:
    (Oh, però son carucce ‘ste faccine ^^)

  • In medias res.

    Spegne la sua sigarette con cura, finché anche l’ultima minima porzione smette di bruciare. Ci vuole calma e determinazione, per non far continuare a soffrire questa piccola forma di vita.

    Poi fisso nel vuoto, sguardo immobile, tempesta nell’animo.

    D’improvviso s’illumina, volge la sua attenzione ai chiacchiericci di due conoscenti seduti alla sua destra. Ostenta interesse, sorriso largo, pensieri felici, empatia.

    Cristallo di neve.
    Poi un’altro ancora.

    Si affaccia al parapetto e osserva.
    Vuoto pieno di vuoto.
    Gente che si affretta in ogni direzione.

    Dove mi trovo?

    Dove sei?

    M’hai detto "ti amo", ti dissi "aspetta".
    Stavo per dirti "eccomi", e tu m’hai detto "vattene".

    (François Truffaut, Jules e Jim, France 1961)

  • Definitely not in the right mood.

    Ma vaffanculo.

    A tutti i Luna Park, a Parigi, a Phantastica, alle luci soffuse, all’istinto di cercare e il terrore di trovare, alle attese spossanti e altre ben più attese spasmodiche da stand-by, a personaggi inutili che si piazzano in linea d’aria verso lo schermo nel momento più sbagliato, a CD di dubbio gusto messi in sottofondo nel momento ancor più sbagliato, alle curve da mal d’auto, alle batterie scariche e i vigili cercavetro.

    Se non fosse per.

    La Crest.
    Le attenzioni a gratis.
    FatBoy Slim.
    Sogni così dolci.
    Click.

    [la mia testa è un focolaio di sovversivi]

  • Per aprire tutti i cancelli.

    – Ciao.
    – Ciao!
    – Oddìo, vieni qui, stringimi forte, mi sei mancato da morire!
    – Anche tu, maledizione…
    – Beh, che mi dici?
    – Partiamo!
    – Eh?
    – Partiamo, ho detto!
    – In che senso?
    – Nel senso che adesso vai a casa un attimo, prepari la valigia, ti cambi, e ce ne andiamo.
    – Ma dove? Per quanti giorni? No dài, mi stai prendendo in giro…
    – No, macché, partiamo davvero, ho la valigia nel portabagagli! E comunque non importa dove e per quanto… noi partiamo, dove ci va di andare andiamo, quando ci va di fermarci ci fermiamo, quando ci finiscono i soldi torniamo. Non ti preoccupare, ho pensato a tutto!
    – No scusa, ma pensato a cosa se non sai neanche dove andare?
    – Oh, insomma, quante storie: ti fidi?
    – Ma se ci siamo conosciuti tre giorni fa!
    – Sì, ma non c’entra… io mi fido di te, per esempio, e so che non rifiuterai!
    – Invece dovrò deluderti, io non posso partire!
    – Voglio farti vedere una cosa prima.
    – Cosa?
    – Devo portarti prima in un posto.
    – Sì ma non partiamo eh?
    – Sì, ho capito, non ti porto a Bombay, è ad un paio di chilometri da qui.
    – Ah ok.

    Je ne veux pas travailler,
    je ne veux pas déjeuner,
    je veux seulement l’oublier,
    et puis je fume.

    Je ne suis pas fière de ça
    vie qui veut me tuer,
    c’est magnifique être sympathique,
    mais je ne le connais jamais.

    (Pink Martini, Sympathique)

    – Sai chi era questo?
    – Tuo nonno.
    – No, era un vecchietto che conobbi anni fa per caso.
    – E come l’hai conosciuto?
    – Per caso, ti ho detto.
    – Vabbè, qualche dettaglio magari…
    – Lascia stare. Comunque: tutti dicono che si è suicidato per la morte della moglie. Ma io parlai con lui qualche giorno prima, e mi disse la verità: era insopportabile il fatto che fosse costretto all’immobilità. Ha passato tutta la sua vita viaggiando, in qualsiasi modo, anche solo per qualche giorno. Mi diceva di viaggiare, viaggiare sempre, perché era il solo modo per capire davvero ciò che c’è fuori, e per poter poi vedere la realtà che vivi con occhi sempre diversi. Ma soprattutto aveva un bisogno viscerale di viaggiare, lo faceva ogni volta che voleva distaccarsi un po’ da una realtà che gli stava stretta. Paradossalmente si rilassava da morire nell’affannarsi a gironzolare qua e là per posti sconosciuti e fermarsi ad ammirare dettagli che per chiunque altro sarebbero parsi insignificanti.
    – E tu quindi vorresti partire per rilassarti?
    – Bah, anche. Voglio dire, ci son tante cose che possono farti rilassare… non so, una sigaretta, una canna, una bottiglia di rum, una sega, leggere un libro, ascoltare musica, pogare ad un concerto, e per i più raffinati torturare cani o lanciare sassi dal cavalcavia. Ma partire, senza meta, scappare chissà dove e poi tornare, è una sorta di eremitaggio leggero che a volte diventa davvero impagabile. Ma a me serve più che altro per riempire la mia testa di qualcosa di fresco, nuovo, diverso. Non è questione di dimenticare, si tratta proprio di sovrastare un cumulo di cadaveri con un monumento sublime.
    – Capisco.

    – Allora?
    – Allora resto qui.
    – Ah. Sei sicura?
    – Sicura.
    – Perché?
    – Perché io sto bene. Non ho bisogno di scappare.
    – Non è scapp…
    – Neanche di sovrastare.
    – Lo spero per te, di cuore. Addio allora.
    – Arrivederci.

  • Going underground.

    Costruisci pure il tuo bel castello di sabbia.

    Non sarà la marea a portarlo via.
    Sarà la pallonata dello zaurdo di turno.

    ‹ Gli déi se ne vanno,
    gli arrabbiati restano! ›

  • Fore de capu!

    Terapia.
    Okay baby.

    Non darà alcun significato alla tua vita, ma ti dice cosa ti succederà. Allora: ci sono tre cose importanti nella vita. Sono i fattori che motivano qualsiasi cosa tu faccia, per qualsiasi cosa chiunque faccia. Il primo è la sopravvivenza, il secondo l’ordine sociale e il terzo il divertimento. Tutto, nella vita, procede in quest’ordine.

    (Linus Torvalds, Rivoluzionario per caso, Garzanti 2002)

    [ Ma nella mia testa era tutt’altro.
    Qualcosa che fa più o meno.
    In primo luogo la soddisfazione individuale.
    Successivamente il riconoscimento da un prossimo.
    Infine il riconoscimento da parte di un nucleo sociale.
    C’è chi parte dalla fine.
    Io partivo dal centro.
    E il problema forse era tutto lì. ]

    Continuavo a mordermi le labbra gonfie.

    Mentre.

    Mentre si parlava di Coffee&Cigarettes bevendo caffè rovente e succhiando avidamente le ultime Camel Natural Flavour. Mentre guardavo lo sguardo contrito da crisi del ’29 e ti interrogavo sadicamente sulla Valle d’Itria. Mentre sorridevo a quegli occhioni fumosi. Mentre rifuggivo la luce diretta come un vampiro (e sarà per quello che mi si voleva uccidere piantandomi canini d’avorio nel petto). Mentre mi chiedevo se era il caso di continuare ad abusare dell’ospitalità del Carrefour. Mentre il mod mi spingeva a rubare un’altra Lucky Strike ma restava solo un altro zibibbo da bere a goccia. Mentre urlavo con tutta la mia forza contro Don Callisto, con gli occhi lucidi di gioia dai riflessi rosa shocking. Mentre cercavo di togliere il sonno dagli occhi, ma come fai se prima ci son strati e strati di sabbia da scavar via?

    [ Abbraccia la mia acquiescenza. Sì.
    Stringi forte, forte. Forte ti prego.
    Dopo, questo velo,
    in giusta giustapposizione,
    potrà anche volar via. ]

    Mentre.

    Continuavo a mordermi le labbra gonfie.
    Cercando di succhiare ciò che restava.
    Di ricordi su ricordi su ricordi e ricordi ancora.
    Ricordi?

    E quanto potrà dar fastidio ad un rom sentirsi dire di nazionalità probabilmente rumena così apolidi e a volte lo sono anch’io quando mi fermo al confine ma dopotutto non mi sento paralizzato e faccio un piccolo passo in avanti torno indietro e poi ne rifaccio uno un po’ più lungo roba da sfigati ma è tutto così soave e dietro la o di soave c’è tutto un altro amorfo fiume di parole che forse non verrà mai fuori o forse è già scivolato via.

    What better place than here,
    what better time than now?

    (Rage Against The Machine, Guerrilla Radio)

    In sostanza non so se ero lì.
    Anzi: non so se stavo lì.
    Però la prossima volta ci penso io, porto il gatto a nove code!