• Baciando la pioggia.

    C’era questa scatola. Questa scatola che molti avevano già aperto. E venivano a parlarmene, concitati. Dicevano: guarda questa foto, guarda! E io volevo aprirla, questa cazzo di scatola, volevo proprio aprirla.

    Sono passati anni, e questa scatola era rimasta lì, buona buona, ben chiusa e schiacciata nei suoi graziosi ritratti. E allora era logico pensare che, ammettendo l’esistenza di una qualche forma di destino, si dovesse semplicemente aver pazienza, e attendere l’elemento-chiave. Che è arrivato.

    Fuga. Divisione. Preziosa. Con.
    Condividere la fuga impreziosendo l’esperienza insieme ad un essere prezioso.

    E la scatola, inutile dirlo, si aprì. Finalmente. Un tripudio di candele, tappeti, lenzuola candide, veli. Calore. Vapori profumati, respirali piano. Riscaldati tra le mie braccia, scivola sott’acqua, riparati sott’acqua, respira sott’acqua. Sono una piccola nuvola che guarda tutto dall’alto, sono una piccola graziosa fottutissima nuvola fragile che ti porterà sempre in spalla e ti vorrà sempre così leggera. Altrimenti si farà pioggia e ti trascinerà ancora via con sé, nascosti e onnipresenti, lontani da qui, per tornare a rasserenarsi, quando tutto intorno torna a tacere, dall’alto di questo piccolo cielo.

    Ce l’ho.
    Ce l’ho e lo stringo forte,
    il mio piccolo cielo.

  • Agosto è il mese più crudele.

    Inevitabile. Un ricordo. Ricordi?
    Un sacco ricolmo di ricordi.
    All’interno altre scatole.
    All’interno di ogni scatola, una sfera fragile.
    Inevitabile: una sfera per volta. Aprire una sfera per volta,
    annodare i fili rimasti sciolti, tessere un nuovo testo.
    Processo di revisionismo incredibilmente efficace.
    Ora tutto ha un senso.
    Un altro senso.
    Ha senso?

    Agosto è il mese più crudele. Genera solo terra riarsa, e i fiori sono sempre stati, in verità, incerti ed effimeri come vapori di mentolo. Costringe alla nullafacenza forzata. Smuove masse spopolando città. Ti abbandona, ti annoia, ti mette a disagio, ti caccia via. Dona pioggia a suo piacimento, solo quando sta per morire.

    Agosto finirà, ma io avrò ancora respiro.

  • Proposal for a dynamic benchmark in experimental dynamic client-server architectures.

    Seduto sulla sabbia. Buio.
    Venere di fronte, Venere di fianco.
    Arti si incastrano ad Arte.

    Il caldo scioglie, il mare lava via.
    Come allora, ancora.

    Giara mezza vuota, ben ripulita,
    splendido mare, pronto ad entrare.

    Sogno.

    Scesa nell’ipogeo, in profondità,
    la chiave sai bene dov’è nascosta,
    apre la porta, corre lungo le scale.

    Arroccato in cima. Arriva, finalmente,
    sfiora tutto, per tenerne a mente la consistenza,
    poi vola via, schizzando su in un attimo come
    risvegliata da un sonno profondo.

    Prossima scena.

  • Pulizie di primavera.

    Tra esami, musical, reazioni isteriche di bimbini patetici e disgusto generale verso nuove maschere, mi sa mi sa che dovrò fare una bella lavanda gastrica. Giusto prezzo da pagare per una testa un po’ meno pesante.

  • Dormono sulla collina.

    Arrivammo tutti, alla fine, a quel punto della propria esistenza in cui il desiderio d’identità fa capolino e bussa insistentemente alla porta. Esigenza, a volte, funzionale e limitata nel tempo, altre volte fondamentale per il prosieguo dell’esistenza.

    Uno decise di essere l’ultimo baluardo della musica hard rock degli anni ’70. Quegli anni non li vide mai, ma li sentiva propri, tanto che amava discorrere non soltanto delle musiche, ma anche del contesto di persone ed eventi storici che gli hanno caratterizzati. Odiava sua sorella, l’esatto opposto di lui, una vergogna per la famiglia, menefreghista e ascoltatrice assidua di neomelodico. Quanto più lei si affezionava a questo genere, tanto più lui si affezionava ostinatamente all’altro. Quando lei buttò l’ultimo disco di Gianni Celeste prima di partire per un master in Olanda, lui ripudiò Paranoid dei Black Sabbath.

    Un’altra decise di rifugiarsi nella cultura. Il suo essere snob, selettiva, critica e cinica, la rese ben presto la migliore delle intellettuali di sinistra. Passò alla storia per aver letto metà de Il Capitale in sei mesi, e questo la inorgogliva, e le dava la spinta giusta per proseguire. Riconosceva la mitizzazione del suo personaggio, su cui lavorava e giocava, e così fece molto a lungo, traendo nutrimento dall’odio che mieteva intorno e dall’adorazione dei pochi affini. L’infinita bellezza del suo intelletto compensava un aspetto esteriore che non riusciva ad accettare.

    Altri due, volendo anche tre, erano accomunati dalla scelta di non scegliere. Vagavano ingenui e istupiditi, come falene che speravano di trovare in qualche fonte luminosa la propria verità. Questo status da scemi che non vogliono far la guerra garantiva loro, tuttavia, grande discrezionalità nel criticare scelte altrui, a volte anche proprie, e cambiare idea a proprio piacimento. La loro caratteristica era quella di non avere caratteristiche. Di non avere un’identità precisa. Questo li teneva lontani dalle critiche, le stesse con cui i loro genitori erano riusciti a reprimerli e renderli costantemente insicuri. Dove gli altri non erano arrivati con schiaffi e le punizioni, questi erano riusciti nell’arduo compito di dominare i propri figli.

    Dormono sulla collina.

  • Meu fado meu.

    Il cricetino corre all’impazzata lungo il percorso infinito della sua ruota, e vorrebbe prendere un giorno qualsiasi e allungarlo in misura altrettanto infinita, per continuare a correre e scoprire cosa lo aspetta alla fine.

    Nei momenti di pausa scenderebbe, indugiando sul percorso della spirale da far scorrere sotto le dita, e guardando il giorno intorno con ostinata indifferenza, lasciando che – una volta tanto – il desiderio di fuga si nutra dell’attesa.

  • Il ciclo delle quinte.

    Nella composizione musicale della mia vita mi è capitato spesso di incontrare un accordo di Bm7, attratto irresistibilmente da Em e Fm. Si tratta di un gioco molto particolare. Se si attacca a strimpellare a partire da uno qualsiasi di questi due, non passa molto tempo prima che la mano, spostatasi per un attimo su Bm7, sembra voglia tornar lì.

    Si accendono le luci nella piccola sala.
    Calde come il colore di un tramonto.
    Suona una canzone di briganti.

    Omo se nasce, brigante se more,
    ma fino all’ultimo avimma sparà.
    E se murimmo menate nu fiore
    e na bestemmia pe’ ‘sta libertà.

    (Canto popolare anonimo)

    Le luci si spengono nella sala, ora più grande.
    Fredde e materiali come il colore in flash.
    Dietro il velo azzurrino, invece, un magma ribolle.

    E la piccola composizione continua ad essere in tono minore, poi maggiore, poi ancora minore. E cerco di lasciare che la terza resti lì, buona buona, mentre gli altri gradi cambiano. Finché non capirai che un accordo triste sa smuovere il cuore e farsi apprezzare, e un accordo in maggiore coccola l’udito ma, presto o tardi, non basta più.

  • Dressed up.

    Cammino e mi guardo intorno senza pretese. Una sciarpa mi protegge dall’estate, una bustina di Oki dagli strascichi dell’inverno. Cammino ed è buio. Cammino a passi lenti e indovinando una direzione. Cammino senza una molotov in tasca. Un anello mi mette in guardia sul passato, un po’ di Gentalyn sul futuro. Cammino e forse mi fermerò a guardare cosa c’è dietro. Cammino e tasto il terreno battendo forte i piedi.

    Coerenza tienimi a bada,
    Coerenza punzecchiami ancora.

  • Drop this, blow on tears.

    Vorrei che adesso ti fermassi, e guardassi bene i miei occhi. Cosa vedi?

    Sono capillari, iridi di cioccolato, pupille timide ai raggi del sole, disgusto, il velo di Morfeo, cornetti croccanti, amarezza, il filo d’acciaio freddo e tagliente su cui scivolare lentamente in equilibrio, un profondo senso d’ingiustizia, alienazione, carpire i piccoli moti dell’animo e le piccole doglie in petto, un sorriso che spezza le redini del cuore.

    Forse eri dove il sogno non era.

  • Che. Ché.

    Una volta vomitai incomprensioni e giudizi, sale e passione, turbini roboanti di pensieri e tentennamenti inscatolati in biglie pesanti come il piombo. Ne raccolsi un po’ in una bottiglia e la gettai in mare. La spiaggia era umida. Il sole del tramonto, di fronte a me, arrossava le nubi ancora compatte.

    La vidi allontanarsi, nuda e grave, verso un’isola che si profilava timidamente all’orizzonte, per poi deviare sulla sinistra. Il mare ondeggiava dolcemente, avvolgendosi a volte in labili pieghe, sensuali come un fianco carnoso in torsione. Tornai a casa e mi addormentai sul letto nuovo.

    La mia bottiglia arrivò su una spiaggia che non vedrò mai, raccolta da un ragazzino che, preso da sconforto, la rigettò poco più lontano. Scorrendo ancora attraverso il mare, giunse alla sponda opposta, trascinata da una tonnara, tenuta stretta da una tartaruga rassegnata a morire. I pescatori presero la tartaruga sanguinante e la bottiglia e buttarono entrambe di nuovo in mare, lontano dalla mattanza.

    La tartaruga morì sul fondo pochi metri più avanti, diventando poi preda di turisti divertiti dal suo carapace. La bottiglia invece continuò a scorrere, lenta, fino all’estuario di un fiume che univa due popoli divisi da tempo. Una bambina la raccolse, ma poco dopo sua madre la convinse a tornare piuttosto ai suoi panni. Se la portò dietro, incuriosita, ma dopo del tempo la gettò via, annoiata.

    La bottiglia finì in una discarica, e lì restò a lungo, finché un’inondazione la trascinò rapidamente verso quello stesso fiume dove si era fermata, e da lì riprese il suo percorso.

    Quando la bottiglia, anni e anni dopo, tornò a me, la trovai completamente diversa. Qualcuno l’aveva svuotata e, al suo posto, l’aveva riempita con acqua di sorgente.

    Non saprò mai chi sia stato, ma ricordo che la bevvi tutta d’un sorso.
    Poi tornai a casa, e mi addormentai sul letto nuovo.