Maledetti pecoroni.
Avete quello che meritate.
Per questo e mille altri motivi non ti lascerò.
› Con la collaborazione di #9.
Oggi è un bel giorno di sole.
Caldo, luminoso, con un venticello fresco che iovolevorestareacasaperlatonsillitemaproprionièente. Quale migliore occasione se non questa per una gitarella in extremis, in barba agli impegni? Fra le fresche frasche, le campagne, le camporell… ehm… vabbè insomma, era situazione bucolica, questo si è capito.
E dunque: i fiori fiorivano, le immondizie immonnezzavano, gli uccellini uccellavano; e lui era come Rinaldo che si specchiava negli occhi di Armida, che a sua volta si specchiava negli occhi di Beatrice, che a sua volta si specchiava negli occhi di Iddìo in persona, che a sua volta si specchiava nello specchietto retrovis…
– Ale, c’è una macchina.
– No allora senti, se mi chiami "Ale" già cominciamo male eh?
– No Ale davvero, c’è una macchina della Polizia, svelto!
– Sì vabbè, ma che scherzi da prete, dico io.
– …
– [guarda allo specchietto] …
– Muoviti!
– Cazzocazzocazzocazzo…
– Madò!
– Ma tanto noi non stiamo facendo niente, oh.
– Prima di tutto siamo in una proprietà privata, e comun…
– Ma dài, non c’è scritto da nessuna parte, e poi non ci sono neanche cancelli, murett…
– Ma dobbiamo stare a fare proprio adesso la disquisizione giuridica? MUOVITI!
– Ehm… sì… cazzocazzocazzocazzo…
La macchina della Polizia si avvicina sempre più e si ferma ad un metro.
Gli arti cominciano ad avere rapidi movimenti di chiaro stampo parkinsoniano.
Continuiamo a guardare allo specchietto (o meglio, uno continua, mentre l’altro più che altro si ostina a non volersi metter gli occhiali in preda ad una idiotissima crisi isterica).
– Madò adesso scendono e ci fanno la multa! [si tuffa nei meandri più reconditi della macchina in cerca dei calzinicazzosempreilcalzino]
– E che cazzo ci inventiamo?
– [si ricorda che la maglietta è al contrario e, stoicamente, incurante dei 40° all’interno dell’abitacolo, indossa il maglione]
– Madòmadòmadò…
– Cazzocazzocazzo…
– Madòmadòmadò…
[ad libitum]
– Ma non scendono?
– No, uno sta agitando le mani, come a dire "ma avete finito?"
– Non è che magari sta chiedendo se è tutto a posto?
– …
– …
– Ehi, ma se ne stanno andando! [tutta tremante]
– Davvero? [gli occhi si illuminano e ne approfitta per puntarli all’abitacolo in cui intanto risulta ancora disperso l’altro calzino]
– Beh, allora andiamo… [tira un sospiro di sollievo, quindi scoppia in una risata isterica da 42’33"]
– No, cazzo, sono fermi all’incrocio!
– Adesso ci fermano…
– Bisogna dimostrare che stiamo insieme!
– Perché scusa?
– Perché secondo me pensano a roba di prostituzione…
– Beh, non mi pare proprio di avere le fattezze di una nigeriana!
– E metti che ti prendono, chessò, per una rumena?
– Ti sembra che abbia la faccia da prostituta?
– Beh, potresti essere una che lavora in proprio…
– Ma che cazzo dici?! Piuttosto vuoi levare ‘sto portaf… vabbè, faccio io! [toglie il portafoglio dal cruscotto]
– Oh senti, adesso devono girare, e noi giriamo dalla parte opposta e basta…
– Hanno svoltato a destra!
– E io vado a sinistra!
– No, aspetta, di là dove andiamo a finire poi?
Dispersi tragicamente nel ritrovare la strada, persi fra le lande desolate di paesini a malapena conosciuti per via dei loro nomi arcani. Rischiando di morire di fame, lei decise di addentare lui in preda ad un raptus. Lui, in preda ad un accesso di rabbia funesta, decise di venderla ad un suo amico pappone sulla SS96, e sparì in Venezuela dedicandosi al commercio clandestino di organi.
Smettiamola col terrorismo psicologico della Polizia.
Free camporella.
Ebbà.
Perché sei ciò che sei stato e che ti è capitato. E questa è una maledizione che non ti scollerai mai più di dosso. Un giorno ti sveglierai e ti accorgerai che, wow, non interessa più a nessuno! Non gli cambia la vita né, in verità, la sfiora neanche con una punta di spillo! Ma continuerà a tormentare te, quando non te l’aspetti, più che chiunque altro; e non ti darà respiro perché sarai tu a non voler respirare.
Eppure è semplice.
Anziché sentirti schiavo del tuo passato,
puoi essere padrone del tuo futuro.
Ricordi?
Sì, lo sappiamo tutti, non è del tutto vero, si è padroni… a metà, ecco.
Lo sappiamo tutti tranne te, che vivi schizzando da un eccesso all’altro.
Ma prima o poi dovrai capirlo.
Da solo.
Forse a volte preferisco restare nella mediocrità
dell’espressione spruzzata a piccole dosi,
che scoppiare d’un botto,
rivoltando le carte in gioco della mia opera,
e scoprendo che, alla fine, non resta più nulla.
Mio dolce cuore,
questa lettera è per te, prima di partire.
Il tramonto è rannuvolato, annuncia pioggia. La pioggia arriva, e scompare subito. Il tempo mi è avverso, sia quello di pioggia che quello dei minuti che son passati da quando ci siamo visti. Ricordi? Quando ti accompagnavo a casa il giorno dopo ci confidavamo sottovoce di aver sentito la mancanza l’uno dell’altro. La mancanza di cosa, poi, non lo si capiva mai bene.
Forse era la mancanza del tuo sorriso, dei tuoi occhi illuminati dai riflessi del sole, dei tuoi baci, delle tue carezze, del fare l’amore stringendoti forte i fianchi, stringendoti forte a me, nel culmine; e ancora: le sbronze, le scorribande in parchi desolati, rotolare nel fango e sporcarci, quell’acido che prendemmo insieme a casa di Sergio, il viaggio a Praga, la morte di mia madre e tu che mi sei stato vicino in ogni momento, le nostre liti che si risolvevano dopo cinque minuti in una cioccolata caldissima.
E tante altre cose.
Era tutto lì, in quel saluto,
quando ripetevamo il piccolo gioco,
di lasciarci ogni notte, per una notte.
Ora, invece, per sempre.
Ed è un gioco che odio,
ma a cui sono costretto per un patria che non sento,
per questo sistema che mi costringe a diventare un mercenario,
pur di aiutare mio padre a sopravvivere.
Ma, mio dolce cuore, ho conservato una foglia dell’albero del tuo giardino su cui ci piaceva poggiarci. Quella dove tu ti arrampicavi e io non ti seguivo per paura. Una volta però lo feci, ricordi? Lo feci davvero e strappai questa foglia. Questa foglia, amore mio, la brucerò, perché non la veda disgregarsi sotto lo scorrere del tempo, come la mia memoria.
Le sue ceneri voleranno, delicate, nell’aria,
come se seguissero la scia di una melodia.
La mia dolce personale
composizione musicale.
E tu, l’inizio dell’inciso più bello.
Gli piace fischiettare.
Adoravo sentirglielo fare.
Ultimamente capitava solo quando era sotto la doccia.
Ma il problema è che capitava solo una volta alla settimana.
Erano in perfetta empatia.
Se uno stava bene, l’altro stava bene.
Se uno si faceva male, l’altro gridava "ahia!".
Una volta, purtroppo, uno si buscò un brutto malanno.
L’altro no.
Si decise a lasciarlo,
mentre posava l’ultima rosa.
Quando uscimmo per la prima volta mi misi in ghingheri. Lo feci aspettare anche un bel po’, lo ammetto, ma più mi guardavo allo specchio più volevo apparirgli perfetta. Poi, dopo una cena e una chiacchierata indimenticabile, ci baciammo, per ore ed ore. Le sue mani erano ovunque, ma soprattutto si affannavano sul viso, sui capelli. Questo mi irritava. Mi sentivo in disordine, con il trucco sfatto, i capelli scarmigliati. E quando tornai a casa mi guardai allo specchio, delusa: sembravo un rottame.
Uscimmo per mesi e mesi, e tutte le volte fu la stessa storia. Più apparivo bella più lui cercava di distruggere il lavoro che avevo applicato con cura su me stessa. Sembrava quasi che mi odiasse in quei momenti, e avrebbe volentieri stracciato via quei vestiti, rovinato il trucco, scombinato l’acconciatura, per sentirsi rassicurato. A volte si eccitava nel vedermi sciatta, sfatta, con un’aria da drogata. Si divertiva a distruggere la mia forza, con violenza.
In verità non mi ha mai graffiato, neanche per sbaglio.
Ma lui è un saliromaniaco.
E io non posso rovinarmi il trucco.
Erano troppo diversi.
Lui si sentiva grande accanto a qualcuna più grande di lui.
Lei invece preferiva star dietro qualcuno più grande di lei.
Faceva troppo male.