Shri Ashutosh 1/1/3.

Ieri l’ho rifatto.
Dopo 6 anni.

Sono andato in città e ho beccato per caso Karl. Era passato da lì per andare a trovare dei suoi amici. Probabilmente era in spedizione. Mi saluta. Mi abbraccia. Da quanto tempo che non ci si vede eh? Come va? Tutto bene, Karl, tutto bene, e tu? Bah, niente di che, ma questa città è una vera merda. Non capisco come faccia quel minchione di Saša a star bene qui. Non lo so Karl, io qui non ci vengo mai. Fai bene, amico mio, fai bene! La città è per i borghesi figli di papà, noi invece i nostri genitori li abbiamo ammazzati, eh? Ah-ah-ah! Sei stupido, Karl, come sempre.

Da piccolo ascoltavo in TV che chi si droga si spegne lentamente. Poi arrivò qualcuno che probabilmente si rese a malapena conto di quanto fossero superficiali, e allora disse con ragionevole sicumera che i giovani di essere spenti lo erano già da tempo, e drogarsi non era altro che un rifugio, un sopiro di sollievo. Mi piacque. Poi però arrivò qualcun altro e rovinò tutto con la solita retorica del “è colpa di questa società che non trasmette valori”. Allora smisi di ascoltare.

Karl mi aveva pregato di accompagnarlo, perché non aveva idea di dove andare e doveva andarsene presto. Mi dava un fastidio terribile stargli accanto, ma mi dispiaceva tanto. Non potevo certo dirgli che in tutto questo tempo avevo sviluppato un rifiuto, crescente e sempre più rancido, verso tutto questo. Mi faceva ribrezzo lui, i suoi denti corrosi dall’incuria, le vene bucherellate, il suo incedere barcollante, il suo parlare di niente di intelligente che non fosse quali fossero attualmente i suoi spacciatori di fiducia o l’ultima ragazza di cui si era innamorato.

Odiavo terribilmente le puttane che chiavava a fatica, mentre tentavo di dormire, tra il secchio di piscio e merda che non svuotava mai per strada e l’odore di sperma che si divertiva a far schizzare ovunque. Mi alzavo, il letto cigolava rumorosamente, senza disturbare minimamente i due teneri amanti. E allora camminavo su e giù per la stanzetta, senza saper che fare. Mi rullavo una sigaretta. Fumavo con la faccia spiaccicata alla finestra. Ogni giorno speravo di morire. In quell’istante. Probabilmente mi avrebbero trovato dopo qualche giorno, illuminato a stento da quel raggio di sole che d’estate cadeva ogni giorno dalle 15 alle 15.30, regalandoci quel po’ di luce che bastava a ricordarci in quale fottutissima topaia stessimo trascinando la nostra fuga pietosa verso nessun dove.

Ma poi è successo. Di nuovo. Siamo arrivati dai suoi amici, ci siamo fermati per una birra. Uno dei tre ha cominciato a preparare una spada per i suoi amici. Karl ha chiesto di farne altre due.

– No, Karl.
– Eh?
– Ho smesso.
– Ma vaccagare.
– Davvero.
– Dai, amico, una sola.
– Ci ho messo un anno per iniziare…
– …e cinque per finire.
– Ecco, lo sai. Non rompere.
– Una sola, che male ti fa?
– Non rompere, ho detto.

Guardo il famoso Saša mentre spinge lentamente lo stantuffo verso la vena. Turgida. Violacea. Sono lui, adesso. Sono il suo orgasmo. Sono lo stordimento. Sono il piacere. Sono il nulla. Sono quello che non ho. Sono tutto quello che posso diventare.

Non potevo non farlo.
L’ho rifatto.
Dopo 6 anni.

Ma non lo rifarò ancora.
Ho smesso.
Non mi sento in colpa.

Shri Ashutosh 1/2/1/1.

Idioti.
Sono morta insieme a due idioti.

Brancolano nel buio, senza idea di dove siano. E si pavoneggiano della loro nuova condizione, senza una vaga idea di quale sia. Non siete morti, capito? Non siete morti! Volete concentrarvi per una buona volta e ascoltarmi? Non siete…

Sono morta.

Loro, nelle loro maledettissime auto, sono vivi, e io sono morta.
Tutta d’un pezzo, finalmente.
Un’oretta fa ero spezzata in due,
metà sul parabrezza di un’utilitaria rosa,
metà sotto il radiatore di un SUV.

Io sono morta e loro sono in coma.
In coma, capite?
Una presa in giro.

Lui si sveglierà tra 13 giorni, alle 10:53, mentre suo figlio lo starà fissando pensando, come in quei film patetici, che concentrandosi sul mantra "Papà, ti prego, svegliati!", e versando qualche lacrimuccia, si sveglierà. E questo sarà il caposaldo della sua infanzia fatta di illusioni. Babbo Natale gliel’hanno già distrutto tre anni fa, quando si è messo in testa di fargli una retata e invece ha scoperto che il vecchio grassone con orribili cappelli rossi sotto l’albero di Natale non era altro che suo padre, mentre chiavava la moglie-renna tra i regali, in un impeto di passione natalizia. Grazie a questo scherzo del caso, invece, potrà continuare a credere nell’amore (e nel beruf), avrà una vita mediocre ma soddisfacente, e morirà nella pia illusione di essersi guadagnato un trono in paradiso pur non avendo fatto mai un cazzo per aiutare il prossimo.

Lei, invece, si sveglierà dopo 4 anni e 8 mesi e 16 giorni giorni, alle 17:17. La sua passione per la numerologia la travolgerà a causa di questa coincidenza numerica (1717 giorni altresì rappresentabili da potenze di due), e questo l’aiuterà ad affrontare il divorzio dal marito che comunque non amava già prima dell’incidente. Durante la sua carriera accademica conoscerà un suo collega, assistente a vita e portaborse leccaculo ad Analisi 2, e sarà un rapporto difficile che sfocerà in convivenza solo una volta costretti alla pensione. Ma sarà comunque contenta, per quanto le sarà possibile, per il fatto che, alla fine, qualcosa avrà preso una piega giusta.

Io invece sono qui. In questa specie di limbo, in una dimensione sovrapposta a quella di quei due deficienti. E mentre mi strazio a sentire le stronzate pompose che blaterano i miei carnefici, mi rendo conto che c’è un qualcosa che sta cambiando dentro di me, e riesco a capire molte cose. Riesco a vedere il futuro di una delle dimensioni del multiverso, e poi di un’altra dimensione ancora, e poi ancora, e tra qualche minuto riuscirò a vedere ogni futuro possibile. Man mano dentro di me sento arrivare tutto lo scibile del mondo, la conoscenza dei particolari più infimi di ogni tempo, e sto andando così a ritroso fino all’inizio. La causa prima. E, se mi va bene, anche lo scopo. Wow. Finalmente. Alla faccia degli escatologi.

Ma c’è un problema, che mi strazia.
Più cose capisco, meno mi riesce di descriverle.
E, porca miseria, io vorrei che anche voi sapeste,
senza dover aspettare di morire.

Ecco, adesso non riesco più.

Shri Ashutosh 1/1/2.

Serendipity.
Scoprire una cosa mentre se ne cerca un’altra.

Ironia della sorte, stavo rivoltando lo sgabuzzino in cerca di quel film per prestarlo a Nico, e ho trovato uno scatolone. Uno dei tanti scatoloni che ho lasciato chiusi anni fa, nella fretta di sistemarmi dopo l’ennesimo trasloco.

Lo scatolone dei ricordi. Quanto sarà passato? Dieci anni almeno. Raccolsi in fretta e furia quello che trovai sotto mano, lo infilai in valigia e partii. Avevo fretta di andarmene, andarmene dai ricordi. Ma non volevo abbandonare tutto.

Cartine. Smoking gold. Io non le usavo mai, sapevo a malapena rullare. Però ero l’unico a potersi permettere un gruzzolo decente grazie a qualche lavoretto, perciò compravo sempre io tutto l’occorrente. Com’ero generoso. E stupido. Compravo il fumo per comprarmi gli amici. E che amici, poi. Chissà che fine avranno fatto. Non so neanche come si chiamano, ci chiamavamo sempre per soprannome. Io ero Giko, e poi c’era Polla, Rat-man, Trantra, Ste… beh, “Ste” in effetti sembrava il nome più normale, gli altri davano di writer farlocchi. Anche perché di bombolette non ne abbiamo usate mai, che io ricordi. Ci facevamo solo canne, ogni giorno. Afgano, marocco, mela, ferrari, polline, skunk, super-skunk, e poi non ricordo che altro. Deglutivamo Tennent’s a più non posso e poi vomitavamo regolarmente le torte che Polla rubava altrettanto regolarmente dalla pasticceria dei suoi. Erano stupidi da morire, e mi facevano divertire. Camminavamo per ore e ore, e io parlavo dei cazzi miei in assoluta libertà, e loro mi guardavano inebetiti mentre fingevano di seguire la mia logorrea. Poi è tutto finito. Spariti. Avevo finito i soldi.

Un cuore di gomma. Un regalo di Maria. Il mio primo amore. Mi sentivo in estasi per aver dato il mio primo bacio. Raccolsi tutti i miei risparmi per comprarle un braccialetto d’argento. Lo pagai 40mila lire. Un’assurdità da quindicenne romantico per San Valentino. E lei mi regalò questo cuore. Inutile, visto che una settimana dopo mi disse che aveva scopato con un tipo. Rimasi di sasso. Cazzo, da un giorno all’altro passi da vergine a troia. E vergine di ferro, dico. Il massimo che mi concesse fu farsi leccare la figa. Mi ricordo ancora la scena. Diosanto. Mi fece lavare mani e denti due volte. E non mi baciò finché non finii e non mi andai a lavare per la terza volta. Poi le presi la mano e sbottonai i jeans, convinto che avrebbe restituito il favore. “Ma sei pazzo? Che schifo!”, e si rimise a studiare. Io me ne andai senza dire una parola. Il giorno dopo mi rimproverò perché sua madre le fece una partaccia sulle sue frequentazioni di dubbio gusto, questi sciattoni con la faccia spenta dei drogati, e così via. Avevo qualche spicciolo e le offrii un gelato. Me lo ricordo ancora quanto lo desideravo. Fece due passi, lo buttò cianciando qualche imprecazione senza motivo apparente, e tornò a casa.

Preservativi. Alla frutta. Mai usati. Io ero lo sfigato, quello ancora vergine a 17 anni, che si ammazzava di canne e seghe. E quante seghe mi sono fatto su Glenda. Me la ricordo ancora. Non era neanche un granché, a parte quegli occhi neri, nerissimi, e il sorriso che ogni volta mi lasciava imbambolato. Si vestiva come una sfigata, e schivava tutti. Ma un giorno la vidi ad una festa con una gonnellina svolazzante, i capelli arruffati con cura, e una matita pesante. Aveva delle gambe snelle che faticavano sui tacchi a spillo di un paio di décolleté. Fu una scoperta. E una mancata scopata. Non se la cagò nessuno quella sera, tanto meno io. La fissavo come un maniaco. Ma ero timido da morire. E soprattutto avevo paura che il giorno dopo mi avrebbero dato dello sfigato perché mi ero pomiciato una sfigata. Ma cosa poteva cambiare, se sfigato lo ero già? Che idiota che sono stato. Ballammo, scherzammo e bevemmo da morire. Eravamo rimasti da soli. Sarebbe stato facile. Facilissimo. E invece niente. E allora giù di seghe per due anni, in ricordo di quei piccoli seni con i capezzoli irti dal freddo. E quelle mutandine. Ubriaca com’era, raccoglieva le gambe fra le braccia senza pensare che non aveva i jeans. E io lì a scrutarle la figa tra le cosce. Una figa dietro strisce rosa e celesti. Uno schifo, in realtà, ma l’idea mi eccitava da morire. O forse in realtà era l’idea implicita di poter riuscire anch’io a smetterla di apparire uno sfigato, almeno per una sera, come lei. Mi eccitava l’idea di poter diventare quello che volevo, in qualche modo. Di scoparmi Glenda e qualsiasi altra puttanella coi capezzoli irti e le mutandine rosa shocking.

Ed era quello il problema. Che ero circondato da gente che non volevo, e con cui non sapevo come regolarmi. Se non parlavo di pompini ero un finocchio, se ne parlavo ero un pervertito. Se non parlavo di un libro che mi piaceva ero un rozzo, se ne parlavo ero un fanatico. Se non mi inventavo qualcosa di politico ero un fascista, se ne parlavo ero troppo comunista. Se parlavo di trip-hop mi mandavano a cagare e ascoltavano un CD degli Stratovarius, e se parlavo di metal mi mandavano a cagare e ascoltavano un CD dei Lamb. E per il resto i loro discorsi mi sembravano vacui, perché non mi interessavano; e non mi interessavano perché non sapevo che argomentare. Mi sentivo in una prigione, stipato come una sardina insieme ad un’altra ventina di persone che erano lì per scelta di qualcuno che voleva costringerci a convivere pacificamente, e tutt’intorno non trovavo nessuno con cui riuscire a legare. Qualcuno che mi cagasse, in sostanza.

Adesso non è così. Adesso sono io a scegliere con chi stare, chi frequentare, se ho voglia di ubriacarmi e fumare, o se voglio passare la serata a cercare una scopata facile. Bugia, difficile. In questo buco di paese non si trova mai un’occasione buona per conoscere qualcuno di buono.

E allora penso, in tutto questo, che se avessero preso me, ora, con questo cervello modificato e puntellato dal tempo che è trascorso, e l’avessero messo al posto di quello sfigato, probabilmente avrei fatto tutto in modo diverso.

Ma è il paradosso del viaggio nel tempo: io sono così perché sono stato in tutt’altro modo. E se tornassi indietro dovrei fare i conti con quello che, in dieci anni, diventerei.

A cominciare dal fatto che non sarei più scappato.

Shri Ashutosh 1/5. The contempt manifesto.

Sono morto.

E spero che questo gesto darà un senso alla mia esistenza.
Alla nostra esistenza.

Lo ammetto, è da codardi rifugiarsi nella morte. Ma è la sottile speranza di aggrapparsi ad una nuova vita. L’alternativa definitiva, quando in questa dimensione non si riesce a trovare.

No, non sono vittima di un qualche dissesto finanziario o un disagio sentimentale, o della perdita di qualche valore o persona irreparabilmente indispensabile al proseguio della mia vita.

Sto parlando di un male più profondo, globale.
Un pessimismo irrefrenabile nei confronti dell’umanità.
Che è iniziata come una moltitudine di individualità,
orgogliose di far parte di un’unica armonia,
ed è finita come una massa uniforme di schiavi,
vittima acquiescente della psicologia dei consumi.

Forse non lo saremo più,
forse lo siamo già e basta.

Siamo miliardi di schiavi inconsapevoli, spronati ad entrare in un circolo vizioso che si protende da secoli, in cui ci accontentiamo di essere schiavi del debito pur di poter ottenere quei prodotti che ci fanno sentire appagati e parte di una società.

Compriamo prodotti che assurgono a status-symbol. Assumiamo droghe legalizzate e non, in modo non creativo ma dissociativo, e da una parte o dall’altra ci invogliano a proseguire. Siamo assetati d’informazione, senza riuscire a capire seriamente da quale parte sia la verità. Non siamo più capaci di comprendere il senso della nostra vita, ma c’è sempre una qualche entità collettiva appena percettibile, in una chiesa, in una moschea o in un televisore, che saprà darti una spiegazione plausibile o semplicemente distrarti dal pensarlo.

Ci hanno raccontato un sacco di stronzate. Non capite? La religione è una stronzata. È la storia a dirlo, non i miracoli. La finanza è una stronzata, ben lontana dalla produttività reale. Il “Papa buono” e il “Presidente buono” sono delle stronzate, ideali fittizi per infondere nuova fiducia con belle parole. Commuovetevi pure nel vedere il vostro patriarca mentre visita uno storpio, o il vostro presidente nero che omaggia un nero colluso coi bianchi. Piangerete, poi, quando capirete finalmente che la crisi economica è stata creata da una crisi finanziaria, e la crisi finanziaria è stata creata da loro. Loro. Loro chi? Quelli che voi non vedete, quelli che sono in ogni nazione, al di sopra di ogni nazione. Alcuni li chiamano Illuminati, altri massoni, altri Bildberg, altri NWO, senza cambiarne la sostanza.

La scelta più facile è quella di non capire. Di far finta di nulla. Perché, per quanti sforzi si facciano, si resta sempre nel dubbio. Sempre ad un passo dalla verità. Ma quando capirete che questa scelta, più facile ora, renderà tutto più difficile anche a voi, dopo?

Quando capirete che ci hanno propugnato la malapolitica per deprimerci e abbandonarci totalmente alla fiducia verso quest’uomo dalla bontà infinita, che infonde sicurezza e promette gloria eterna? Quando capirete che la vera soluzione non è “votare il meno peggio, tanto che possiamo fare”?

Quando capirete che, per vivere davvero, bisogna mettere in discussione davvero tutto, de-assolutizzare i valori, i principi, la morale, l’etica, le abitudini, le consuetudini, e spogliarci di tutto ciò che noi diamo per scontato o assumiamo come verità dogmatica, semplicemente perché tutti gli altri lo fanno o perché ci hanno insegnato che così è giusto?

Chi sa cos’è bene e cos’è male? Un predatore che mangia la sua preda fa del male? E un uomo che uccide un altro uomo? E perché uno sì e l’altro no? E avrete davvero il coraggio di dire che la vostra spiegazione è assolutamente vera? Che il vostro Dio la giudicherà vera? Che in un altro pianeta, in un’altra dimensione, secondo un altro sistema di riferimento, chiunque sarà d’accordo con voi?

Allora la verità, forse, non è data dalla normalità. Non è la maggioranza a deciderlo. Non la potrà decidere nessuno. Perché la verità, anzi, la Verità, semplicemente non esiste.

Quando comincerete a mettere in dubbio i valori su cui siete cresciuti?

Quando capirete che quelle che loro chiamano “banconote” sono carta straccia a cui hanno deciso di affibbiare un valore? Quando capirete che insistono tanto perché usiate carte di credito per poter virtualizzare definitivamente il denaro e crearne e distruggerne quindi a piacimento? Quando capirete che quest’Euro che abbraccia sempre più paesi è una minaccia grande quanto il Dollaro statunitense e la moneta unica mondiale che verrà? Quando capirete che, non appena siete nati, dovete già pagare un debito ideale che, per quanti sforzi potrete fare, non riuscirete mai a colmare? E quando capirete che non è dovuto?

Quando capirete sarà troppo tardi. Sarete ancora schiavi. E scoprirete che gli altri sono ancora lì, definitivamente ipnotizzati, e non vi aiuteranno mai perché non sapranno neanche di cosa stiate parlando. E non vorranno saperlo, perché non vi crederanno, perché sanno già qual è la loro verità. E non la metteranno in dubbio perché li hanno convinti a non farlo. Per loro sarà tutto com’è sempre stato, magari giusto un po’ peggio di prima, ma con grandi (o minime) speranze per un futuro migliore (o almeno accettabile). E continueranno a vivere nella loro prigione dorata, senza riuscire a percepire davvero la sensazione di essere schiavi.

Lascio questa lettera qui.
Sperando che venga letta.
Sperando che si sappia
che un giorno,
una persona qualunque,
ha fatto un gesto orribile,
sperando in qualcosa di magnifico.

Shri Ashutosh 1/1/1.

Una lettera. Una lettera vera, dico. Non una di quelle porcate pubblicitarie. E neanche una di quelle catene di Sant’Antonio dei nostalgici del fotocopiatore. No. Una lettera vera. Senza mittente. Il destinatario scritto a mano, con una calligrafia incerta.

Una foto. Quello a destra sono io, certo che mi riconosco. Non ho rigettato anche la mia infanzia, dannazione. Ma non mi ricordo proprio di questa foto. Non mi ricordo chi è quel bambino accanto a me. E questa panchina, questi alberi dietro di noi, non mi dicono nulla.

Caro Daniele,

ti ho cercato ovunque, da quando ho saputo che te ne sei andato. Sei scappato, Daniele, hai perso tutto. Hai deciso di perdere tutto. E io so che l’hai fatto con la solita convinzione con cui hai voluto far sempre tutto. Sei testardo, Daniele, sei testardo e lo so come possono saperlo una madre e un fratello.

Ma chi è questo, il mio vecchio catechista all’arrembaggio?
Ah no, quello è morto.
Meno male.

Sono successe molte cose qui. Non credo che ne sappia niente, visto che hai rotto tutti i ponti. Tante volte avrei voluto chiederti di venire qui, almeno per un giorno, almeno per dare un po’ di consolazione a tutti quelli che ti hanno voluto bene veramente.

Ho deciso che dovrai dare un taglio a tutto questo. So che adesso ti chiederai chi sia io per permettermi tutto questo,

E infatti, ma chi è questo?
Si fosse firmato, almeno…

e adesso sarai andato a cercare una firma, un indizio,

Uh, perspicace…

che non c’è.

Mi sta prendendo in giro.
Io odio quelli che mi prendono in giro.
Se me lo trovo davanti io…

E adesso magari hai paura che ti venga a rompere le scatole. Beh, sì, lo farò davvero. Anzi, facciamo così. Ci vediamo domattina in stazione. Prepara i bagagli, si torna a casa. Giusto per qualche giorno. Quando saremo arrivati capirai. Ci vediamo alle 11.

Questo è fuori di testa.
Diosanto, ma ci pensi? Lui lì ad aspettare come un idiota una persona che – ci giurerei – manco riconoscerebbe. Ore. Giorni. Poi, ormai infreddolito e sul punto di collassare, rifugiato in un bar a bere whiskey rancido caldo. Che scenetta.

Aspetterò fino alle 13, dopodiché verrò a prenderti. Con la forza, se è necessario. Non farmi perdere tempo, Daniele. Quando mi riconoscerai non riderai più di questa lettera.

Ma certo che ti riconoscerò! Sarai quello appoggiato al muretto che sta per morire di freddo. Quasi quasi ci vado. Dico, mi nascondo dietro una colonna e lo spio. Tanto non è vero che mi riconoscerà. Chissà di che razza di pervertito si tratta.

Questa foto.
Maledetta foto.

Shri Ashutosh 1/2/1.

Estou chorando sim, mas não é de tristeza, não.
É muita alegria: meu pranto é de emoção.
A tristeza foi embora deixando a alegria em seu lugar.
Com ela, foi a saudade; a felicidade veio comigo morar.

(Almeidinha Do El Gringo, Chorando Sim, Hotel Côstes vol. 1)

Non doveva andare così.

Ci avevano promesso una luce immensa, ma io non riesco a vedere.
Ci avevano promesso calore, ma io sento freddo. Freddo.
Ci avevano promesso pace, ma ci sono guerre interminabili in me.

In me? Cosa c’è in me? Cosa resta di me? Provo a muovermi. Non riesco. Non riesco. Non sento nulla. Immagino la mia mano tesa verso il vuoto, ma non riesco a coglierne lo sforzo. Provo ad agitarla. Non sento l’aria scorrere tra le dita. Non sento più nulla.

Non doveva andare così. O forse sì. Lui era lì per un motivo. Correva per un motivo. Ma era un motivo più grande di lui. Di noi. Cerca di racimolare qualche rimasuglio di certezze. Ma qui certezze non ce ne sono più. Anche lui non c’è più. È così buio che non riesco a scorgerlo in questa distesa infinita di nulla. Ma lo sento. È qui, accanto. L’ho sentito parlare. No, non con le mie orecchie. Non sento più nulla. Tranne questo silenzio assordante, che mi fa impazzire.

E lei non c’è.
Svanita chissà dove.
Forse in un altro nulla.
Il nulla delle vittime.
Invece noi siamo in quello dei carnefici.
Ma io sono vittima e carnefice,
allo stesso tempo, e con la stessa ragione.
E anche lui, dopotutto.

Forse lei non è in nessun nulla.

Voglio uscire da qui.
Vi prego.

Shri Ashutosh 1/3. Out-rage.

Sono morto. Se non la trovo sono morto. Ma come cazzo m’è venuto? È finita. No. Non è finita. Io sono finito. No. Non sono finito. Adesso la trovo, gliela porto e siamo tutti contenti. Che dico? Di più: felici! Sentilo, sentilo il gusto della gioia di vivere! Porca miseria. Tra un minuto la trovo, esco di qui e tra un’ora al massimo starò di nuovo sul terrazzino a godermi il sole con una bella caipirinha. Anzi, no, non mi va più, mi faccio un daiquiri strawberry. No. Non ho le fragole. Allora mi faccio un… ma che cazzo sto dicendo? Oh, cazzo, non ho trovato ancora niente, altro che fragole! Ma dov’è, dov’è? Porca puttana, porca.

Pronto. Eh. No, biscottino, non sono a casa. Ma no, non sono da Manola. E smettila di chiamarla puttana, è la mia segretaria! No, non me la sono scopata. Quante volte te lo devo dire? Mi ha solo fatto un pompino, ma eravamo ubriachi, che dovevo fare… Sì, no, senti, io sono ad una riunione di lavoro… Essì, sto ansimando perché mi stanno facendo agitare, stiamo discutendo su un sacco di stronzate… No, non sto scopando… Smettila! La vuoi smettere? Senti, io devo tornare in riunione, tanto è quasi finita, ci sentiamo tra qualche minuto, ok? Un bacio, biscottino mio. Eh? Ah sì… Gruaargh! Visto che leone eh? Cià.

Porca puttana porca… porcaccia di una puttana miseria… Chi cazzo glielo spiega mo’? Sempre se mi avanza il tempo di spiegarglielo, tutto ‘sto casino. Che casino, che casino! Ma come m’è venuto di chiedergli… ma vaffanculo, io adesso scappo. Basta. Sì, scappo via. Tanto chi se ne accorge. No, che cazzo sto dicendo, mi stanno aspettando giù. Ma come m’è venuto, diosanto… Allora: con calma. Unduettrè e mi calmo. Ok. Allora. Sotto il letto non c’è. Nell’armadio non c’è. Nei cassetti non ho visto ma tant… no, ok, vediamo nei cassetti, magari l’ha aperta e ha nascosto i pezzi in giro, che ne sai? No, che dico, era chiusa a chiave. Mica la sa la combinazione, la so io, no? E se magari l’ha scoperta? Ok. Calma. Proviamo. No, qui non c’è. Neanche qui. Mm… no, neanche qui. Ah, magari ha qualche cassafort… oh cazzo. Oh. Cazzo. Cazzocazzocazzo. La porta. Cazzo. Cazzo! Ok. Tanto ho il silenziatore. Non posso fare altro. Che casino, che casino, diosanto che casino!

Gatto di merda. Meno male che avevo il silenziatore. E adesso che ne faccio? Vabbè, poi lo butto nella spazzatura, tanto mica se ne accorgerà. No, che dico, non poi, adesso, se no mi sporca il pavimento di sangue e ci metto più tempo per pulire. Che casino, ci voleva pure ‘sto cazzo di gatto, ci voleva. Ok. Calma. Buttiamo ‘sto coso e poi cerchiamo. Poi magari vai a vedere che devo cercare proprio in cucina… tutto può essere, no?

Shri Ashutosh 1/2. Tram de vie.

Sono morto.

Non è colpa mia. Procedevo a velocità moderata lungo il viale. Vabbè, lo ammetto, non era proprio moderatissima. Ma era domenica, la strada era così libera, i semafori così inspiegabilmente verdi. E io ero in ritardo. Mio figlio strillava disperato il suo disappunto per i miei continui ritardi. Ma non è colpa mia. Ho avuto una colazione di lavoro. In questo periodo la domenica non esiste proprio per me, se non esiste per l’Area Manager.

E la signora di fronte a me era evidentemente preda di uno di quei dilemmi critici che capitano a chi si trova improvvisamente di fronte una ragazza sovrappensiero e un’auto sgangherata. A 80 all’ora devi scegliere. O schivi la ragazza o schivi l’auto.

Il problema era che la signora, pur provando a schivare la ragazza, è riuscita con indubbia accortezza a prendere tutt’e due.

Il che è stato davvero un bel problema, visto che tutti e tre si trovavano – casualmente – senza cintura di sicurezza né airbag.

Shri Ashutosh 1/1. Era na vota.

Sono morto.

O meglio.
Sono "un" morto.

Uno dei tanti morti che girovagano in questa città desolata. Mi lascio trascinare, imbelle, da questa fiumana di insensibili alle feste comandate che calpesta neve con sicumera e grugno calcato sul petto e cappello calcato sugli occhi stretti stretti nel cappotto senza parlare neanche per scusarsi di averti urtato. Ogni anno è così. Sempre così. Da quando sono arrivato. Per 14 anni ho visto luminarie epilettiche e sbilenche, accattoni col cappello perennemente vuoto, alberelli sommessi che fanno capolino dalle finestre e dai banconi dei negozi. Un paio di gnomi tra un prosciutto e un salame, una renna rampante abbarbicata sullo specchio del barbiere.

Non so dire se è meglio o peggio.

Dopotutto ero scappato di casa anche per quello. Per quella corsa inutile al regalo dell’ultimo minuto per i propri cari. Mi avevano contagiato, cristo santo. O forse non poteva andare diversamente. Riuscirono a farmi sentire di merda, a cena, mentre tutti si scambiavano regali. "E tu?". E io. Io che? Perché? Perché dovrei se non mi va, se ho bisogno di pagarmi il viaggio, se non voglio – non posso – chieder soldi o favori a nessuno?

E allora, il giorno dopo, fanculo. In anticipo sui tempi. Alle cene. Ai regali. Al traffico puzzolente. Ai petardi. Ai babbi natale rampicanti o semoventi ad ogni angolo. All’odore mefitico della gente che passa, che si inietta nelle narici insieme al freddo tagliente.

Ma ora, devo ammetterlo, un po’ mi manca.