Qualche anno fa partecipai ad un progetto della Società Dante Alighieri, chiamato Adotta una Parola. Quest’iniziativa non esiste già più, in realtà, dal momento che è stata integrata in una specie di social network chiamato Beatrice (giuro).
L’idea era quella di prendere una parola, idealmente una caduta in disuso, e darne nuova vita nella lingua corrente.
La parola di cui mi innamorai era: desuefazione.
Il processo di desuefazione è molto più complicato del suo contrario. L’assuefazione è una sensazione confortevole, che si cerca di mantenere costante ed ininterrotta, è Rinaldo che porge lo specchio ad Armida, è la Circe che Ulisse non vuole lasciare. La desuefazione è l’antitesi hegeliana, è il terremoto che mina lo status quo, è il cambiamento che non si desidera bensì si subisce, anche quando è auto-inflitto.
La desuefazione è un processo di resistenza a se stessi, di resistenza alla resistenza al cambiamento. È la sostanza stupefacente che produce di nuovo il suo effetto; la routine o il gesto abitudinario che smette di essere rassicurante; lo stimolo esterno che provoca di nuovo una reazione fisica o psicologica.
Sono i muscoli intorpiditi che si riprendono al risveglio.
Le pupille che si ritirano alla vista di un nuovo, inedito sole.
I polmoni che si riempiono di aria fresca.