Concludere la propria esistenza con gli stessi strumenti che l’hanno caratterizzata.
Principio semplice ed efficace.
Gianni ha trascorso una vita sostanzialmente improntata sul concetto di dedizione. Dedizione allo studio e all’ubbidienza. Poi dedizione alla droga e alla contestazione. Infine dedizione alla responsabilità, all’amore ed al lavoro.
Qualsiasi divergenza rispetto a questi paletti ben definiti era temporanea, pena un’ascetico processo di auto-colpevolizzazione e conseguente riallineamento.
Ora vede tutto questo come perfettamente inutile.
Vaga in un puzzle dove gli eventi scollano via il pezzo significativo, e il tempo cancella i pezzi restanti. Quelli intorno. Quelli che fanno contesto. Quelli che, diosanto, almeno si potrebbe indovinare cos’è che manca.
La sottoposta che si convinse a prendere in moglie è andata via già tempo fa, e la sua nuova famiglia pullula di figli grati (in media) della propria esistenza.
La sua famiglia, sparsa nelle quattro dimensioni dello spaziotempo, non saprebbe rispondere se gli si chiedesse che fine possa aver fatto quell’asociale fatalmente rispondente alla categoria di parente.
Il lavoro gli ha logorato il fegato e il cervello. Le ore non-lavorative erano solo utili a riparare agli scompensi delle ore lavorative. Stress, frustrazioni e imprevisti si scioglievano dosi consistenti di sigarette, alcol ed altre droghe leggere, nonché in neanche tanto frequenti masturbazioni e neanche tanto rare situazioni di sesso occasionale (talvolta addirittura di carattere orgiastico), in cui spiccava una cospicua dose di violenza e un pizzico di sadismo compulsivo.
Cosa resta?
Resta l’idea, fottutamente irritante, che la sua vita sia stata un perenne casino, senza capo né coda, e che non sia riuscito a fare in tempo a porre rimedio.
O forse no.