Ieri l’ho rifatto.
Dopo 6 anni.
Sono andato in città e ho beccato per caso Karl. Era passato da lì per andare a trovare dei suoi amici. Probabilmente era in spedizione. Mi saluta. Mi abbraccia. Da quanto tempo che non ci si vede eh? Come va? Tutto bene, Karl, tutto bene, e tu? Bah, niente di che, ma questa città è una vera merda. Non capisco come faccia quel minchione di Saša a star bene qui. Non lo so Karl, io qui non ci vengo mai. Fai bene, amico mio, fai bene! La città è per i borghesi figli di papà, noi invece i nostri genitori li abbiamo ammazzati, eh? Ah-ah-ah! Sei stupido, Karl, come sempre.
Da piccolo ascoltavo in TV che chi si droga si spegne lentamente. Poi arrivò qualcuno che probabilmente si rese a malapena conto di quanto fossero superficiali, e allora disse con ragionevole sicumera che i giovani di essere spenti lo erano già da tempo, e drogarsi non era altro che un rifugio, un sopiro di sollievo. Mi piacque. Poi però arrivò qualcun altro e rovinò tutto con la solita retorica del “è colpa di questa società che non trasmette valori”. Allora smisi di ascoltare.
Karl mi aveva pregato di accompagnarlo, perché non aveva idea di dove andare e doveva andarsene presto. Mi dava un fastidio terribile stargli accanto, ma mi dispiaceva tanto. Non potevo certo dirgli che in tutto questo tempo avevo sviluppato un rifiuto, crescente e sempre più rancido, verso tutto questo. Mi faceva ribrezzo lui, i suoi denti corrosi dall’incuria, le vene bucherellate, il suo incedere barcollante, il suo parlare di niente di intelligente che non fosse quali fossero attualmente i suoi spacciatori di fiducia o l’ultima ragazza di cui si era innamorato.
Odiavo terribilmente le puttane che chiavava a fatica, mentre tentavo di dormire, tra il secchio di piscio e merda che non svuotava mai per strada e l’odore di sperma che si divertiva a far schizzare ovunque. Mi alzavo, il letto cigolava rumorosamente, senza disturbare minimamente i due teneri amanti. E allora camminavo su e giù per la stanzetta, senza saper che fare. Mi rullavo una sigaretta. Fumavo con la faccia spiaccicata alla finestra. Ogni giorno speravo di morire. In quell’istante. Probabilmente mi avrebbero trovato dopo qualche giorno, illuminato a stento da quel raggio di sole che d’estate cadeva ogni giorno dalle 15 alle 15.30, regalandoci quel po’ di luce che bastava a ricordarci in quale fottutissima topaia stessimo trascinando la nostra fuga pietosa verso nessun dove.
Ma poi è successo. Di nuovo. Siamo arrivati dai suoi amici, ci siamo fermati per una birra. Uno dei tre ha cominciato a preparare una spada per i suoi amici. Karl ha chiesto di farne altre due.
– No, Karl.
– Eh?
– Ho smesso.
– Ma vaccagare.
– Davvero.
– Dai, amico, una sola.
– Ci ho messo un anno per iniziare…
– …e cinque per finire.
– Ecco, lo sai. Non rompere.
– Una sola, che male ti fa?
– Non rompere, ho detto.
Guardo il famoso Saša mentre spinge lentamente lo stantuffo verso la vena. Turgida. Violacea. Sono lui, adesso. Sono il suo orgasmo. Sono lo stordimento. Sono il piacere. Sono il nulla. Sono quello che non ho. Sono tutto quello che posso diventare.
Non potevo non farlo.
L’ho rifatto.
Dopo 6 anni.
Ma non lo rifarò ancora.
Ho smesso.
Non mi sento in colpa.