Serendipity.
Scoprire una cosa mentre se ne cerca un’altra.
Ironia della sorte, stavo rivoltando lo sgabuzzino in cerca di quel film per prestarlo a Nico, e ho trovato uno scatolone. Uno dei tanti scatoloni che ho lasciato chiusi anni fa, nella fretta di sistemarmi dopo l’ennesimo trasloco.
Lo scatolone dei ricordi. Quanto sarà passato? Dieci anni almeno. Raccolsi in fretta e furia quello che trovai sotto mano, lo infilai in valigia e partii. Avevo fretta di andarmene, andarmene dai ricordi. Ma non volevo abbandonare tutto.
Cartine. Smoking gold. Io non le usavo mai, sapevo a malapena rullare. Però ero l’unico a potersi permettere un gruzzolo decente grazie a qualche lavoretto, perciò compravo sempre io tutto l’occorrente. Com’ero generoso. E stupido. Compravo il fumo per comprarmi gli amici. E che amici, poi. Chissà che fine avranno fatto. Non so neanche come si chiamano, ci chiamavamo sempre per soprannome. Io ero Giko, e poi c’era Polla, Rat-man, Trantra, Ste… beh, “Ste” in effetti sembrava il nome più normale, gli altri davano di writer farlocchi. Anche perché di bombolette non ne abbiamo usate mai, che io ricordi. Ci facevamo solo canne, ogni giorno. Afgano, marocco, mela, ferrari, polline, skunk, super-skunk, e poi non ricordo che altro. Deglutivamo Tennent’s a più non posso e poi vomitavamo regolarmente le torte che Polla rubava altrettanto regolarmente dalla pasticceria dei suoi. Erano stupidi da morire, e mi facevano divertire. Camminavamo per ore e ore, e io parlavo dei cazzi miei in assoluta libertà, e loro mi guardavano inebetiti mentre fingevano di seguire la mia logorrea. Poi è tutto finito. Spariti. Avevo finito i soldi.
Un cuore di gomma. Un regalo di Maria. Il mio primo amore. Mi sentivo in estasi per aver dato il mio primo bacio. Raccolsi tutti i miei risparmi per comprarle un braccialetto d’argento. Lo pagai 40mila lire. Un’assurdità da quindicenne romantico per San Valentino. E lei mi regalò questo cuore. Inutile, visto che una settimana dopo mi disse che aveva scopato con un tipo. Rimasi di sasso. Cazzo, da un giorno all’altro passi da vergine a troia. E vergine di ferro, dico. Il massimo che mi concesse fu farsi leccare la figa. Mi ricordo ancora la scena. Diosanto. Mi fece lavare mani e denti due volte. E non mi baciò finché non finii e non mi andai a lavare per la terza volta. Poi le presi la mano e sbottonai i jeans, convinto che avrebbe restituito il favore. “Ma sei pazzo? Che schifo!”, e si rimise a studiare. Io me ne andai senza dire una parola. Il giorno dopo mi rimproverò perché sua madre le fece una partaccia sulle sue frequentazioni di dubbio gusto, questi sciattoni con la faccia spenta dei drogati, e così via. Avevo qualche spicciolo e le offrii un gelato. Me lo ricordo ancora quanto lo desideravo. Fece due passi, lo buttò cianciando qualche imprecazione senza motivo apparente, e tornò a casa.
Preservativi. Alla frutta. Mai usati. Io ero lo sfigato, quello ancora vergine a 17 anni, che si ammazzava di canne e seghe. E quante seghe mi sono fatto su Glenda. Me la ricordo ancora. Non era neanche un granché, a parte quegli occhi neri, nerissimi, e il sorriso che ogni volta mi lasciava imbambolato. Si vestiva come una sfigata, e schivava tutti. Ma un giorno la vidi ad una festa con una gonnellina svolazzante, i capelli arruffati con cura, e una matita pesante. Aveva delle gambe snelle che faticavano sui tacchi a spillo di un paio di décolleté. Fu una scoperta. E una mancata scopata. Non se la cagò nessuno quella sera, tanto meno io. La fissavo come un maniaco. Ma ero timido da morire. E soprattutto avevo paura che il giorno dopo mi avrebbero dato dello sfigato perché mi ero pomiciato una sfigata. Ma cosa poteva cambiare, se sfigato lo ero già? Che idiota che sono stato. Ballammo, scherzammo e bevemmo da morire. Eravamo rimasti da soli. Sarebbe stato facile. Facilissimo. E invece niente. E allora giù di seghe per due anni, in ricordo di quei piccoli seni con i capezzoli irti dal freddo. E quelle mutandine. Ubriaca com’era, raccoglieva le gambe fra le braccia senza pensare che non aveva i jeans. E io lì a scrutarle la figa tra le cosce. Una figa dietro strisce rosa e celesti. Uno schifo, in realtà, ma l’idea mi eccitava da morire. O forse in realtà era l’idea implicita di poter riuscire anch’io a smetterla di apparire uno sfigato, almeno per una sera, come lei. Mi eccitava l’idea di poter diventare quello che volevo, in qualche modo. Di scoparmi Glenda e qualsiasi altra puttanella coi capezzoli irti e le mutandine rosa shocking.
Ed era quello il problema. Che ero circondato da gente che non volevo, e con cui non sapevo come regolarmi. Se non parlavo di pompini ero un finocchio, se ne parlavo ero un pervertito. Se non parlavo di un libro che mi piaceva ero un rozzo, se ne parlavo ero un fanatico. Se non mi inventavo qualcosa di politico ero un fascista, se ne parlavo ero troppo comunista. Se parlavo di trip-hop mi mandavano a cagare e ascoltavano un CD degli Stratovarius, e se parlavo di metal mi mandavano a cagare e ascoltavano un CD dei Lamb. E per il resto i loro discorsi mi sembravano vacui, perché non mi interessavano; e non mi interessavano perché non sapevo che argomentare. Mi sentivo in una prigione, stipato come una sardina insieme ad un’altra ventina di persone che erano lì per scelta di qualcuno che voleva costringerci a convivere pacificamente, e tutt’intorno non trovavo nessuno con cui riuscire a legare. Qualcuno che mi cagasse, in sostanza.
Adesso non è così. Adesso sono io a scegliere con chi stare, chi frequentare, se ho voglia di ubriacarmi e fumare, o se voglio passare la serata a cercare una scopata facile. Bugia, difficile. In questo buco di paese non si trova mai un’occasione buona per conoscere qualcuno di buono.
E allora penso, in tutto questo, che se avessero preso me, ora, con questo cervello modificato e puntellato dal tempo che è trascorso, e l’avessero messo al posto di quello sfigato, probabilmente avrei fatto tutto in modo diverso.
Ma è il paradosso del viaggio nel tempo: io sono così perché sono stato in tutt’altro modo. E se tornassi indietro dovrei fare i conti con quello che, in dieci anni, diventerei.
A cominciare dal fatto che non sarei più scappato.