Sono morto.
O meglio.
Sono "un" morto.
Uno dei tanti morti che girovagano in questa città desolata. Mi lascio trascinare, imbelle, da questa fiumana di insensibili alle feste comandate che calpesta neve con sicumera e grugno calcato sul petto e cappello calcato sugli occhi stretti stretti nel cappotto senza parlare neanche per scusarsi di averti urtato. Ogni anno è così. Sempre così. Da quando sono arrivato. Per 14 anni ho visto luminarie epilettiche e sbilenche, accattoni col cappello perennemente vuoto, alberelli sommessi che fanno capolino dalle finestre e dai banconi dei negozi. Un paio di gnomi tra un prosciutto e un salame, una renna rampante abbarbicata sullo specchio del barbiere.
Non so dire se è meglio o peggio.
Dopotutto ero scappato di casa anche per quello. Per quella corsa inutile al regalo dell’ultimo minuto per i propri cari. Mi avevano contagiato, cristo santo. O forse non poteva andare diversamente. Riuscirono a farmi sentire di merda, a cena, mentre tutti si scambiavano regali. "E tu?". E io. Io che? Perché? Perché dovrei se non mi va, se ho bisogno di pagarmi il viaggio, se non voglio – non posso – chieder soldi o favori a nessuno?
E allora, il giorno dopo, fanculo. In anticipo sui tempi. Alle cene. Ai regali. Al traffico puzzolente. Ai petardi. Ai babbi natale rampicanti o semoventi ad ogni angolo. All’odore mefitico della gente che passa, che si inietta nelle narici insieme al freddo tagliente.
Ma ora, devo ammetterlo, un po’ mi manca.
i babbi natale semoventi sono una ventina di Roma?
ehsi.. quella che manca è la routine..