Dormono sulla collina.

Arrivammo tutti, alla fine, a quel punto della propria esistenza in cui il desiderio d’identità fa capolino e bussa insistentemente alla porta. Esigenza, a volte, funzionale e limitata nel tempo, altre volte fondamentale per il prosieguo dell’esistenza.

Uno decise di essere l’ultimo baluardo della musica hard rock degli anni ’70. Quegli anni non li vide mai, ma li sentiva propri, tanto che amava discorrere non soltanto delle musiche, ma anche del contesto di persone ed eventi storici che gli hanno caratterizzati. Odiava sua sorella, l’esatto opposto di lui, una vergogna per la famiglia, menefreghista e ascoltatrice assidua di neomelodico. Quanto più lei si affezionava a questo genere, tanto più lui si affezionava ostinatamente all’altro. Quando lei buttò l’ultimo disco di Gianni Celeste prima di partire per un master in Olanda, lui ripudiò Paranoid dei Black Sabbath.

Un’altra decise di rifugiarsi nella cultura. Il suo essere snob, selettiva, critica e cinica, la rese ben presto la migliore delle intellettuali di sinistra. Passò alla storia per aver letto metà de Il Capitale in sei mesi, e questo la inorgogliva, e le dava la spinta giusta per proseguire. Riconosceva la mitizzazione del suo personaggio, su cui lavorava e giocava, e così fece molto a lungo, traendo nutrimento dall’odio che mieteva intorno e dall’adorazione dei pochi affini. L’infinita bellezza del suo intelletto compensava un aspetto esteriore che non riusciva ad accettare.

Altri due, volendo anche tre, erano accomunati dalla scelta di non scegliere. Vagavano ingenui e istupiditi, come falene che speravano di trovare in qualche fonte luminosa la propria verità. Questo status da scemi che non vogliono far la guerra garantiva loro, tuttavia, grande discrezionalità nel criticare scelte altrui, a volte anche proprie, e cambiare idea a proprio piacimento. La loro caratteristica era quella di non avere caratteristiche. Di non avere un’identità precisa. Questo li teneva lontani dalle critiche, le stesse con cui i loro genitori erano riusciti a reprimerli e renderli costantemente insicuri. Dove gli altri non erano arrivati con schiaffi e le punizioni, questi erano riusciti nell’arduo compito di dominare i propri figli.

Dormono sulla collina.

Meu fado meu.

Il cricetino corre all’impazzata lungo il percorso infinito della sua ruota, e vorrebbe prendere un giorno qualsiasi e allungarlo in misura altrettanto infinita, per continuare a correre e scoprire cosa lo aspetta alla fine.

Nei momenti di pausa scenderebbe, indugiando sul percorso della spirale da far scorrere sotto le dita, e guardando il giorno intorno con ostinata indifferenza, lasciando che – una volta tanto – il desiderio di fuga si nutra dell’attesa.

Il ciclo delle quinte.

Nella composizione musicale della mia vita mi è capitato spesso di incontrare un accordo di Bm7, attratto irresistibilmente da Em e Fm. Si tratta di un gioco molto particolare. Se si attacca a strimpellare a partire da uno qualsiasi di questi due, non passa molto tempo prima che la mano, spostatasi per un attimo su Bm7, sembra voglia tornar lì.

Si accendono le luci nella piccola sala.
Calde come il colore di un tramonto.
Suona una canzone di briganti.

Omo se nasce, brigante se more,
ma fino all’ultimo avimma sparà.
E se murimmo menate nu fiore
e na bestemmia pe’ ‘sta libertà.

(Canto popolare anonimo)

Le luci si spengono nella sala, ora più grande.
Fredde e materiali come il colore in flash.
Dietro il velo azzurrino, invece, un magma ribolle.

E la piccola composizione continua ad essere in tono minore, poi maggiore, poi ancora minore. E cerco di lasciare che la terza resti lì, buona buona, mentre gli altri gradi cambiano. Finché non capirai che un accordo triste sa smuovere il cuore e farsi apprezzare, e un accordo in maggiore coccola l’udito ma, presto o tardi, non basta più.

Dressed up.

Cammino e mi guardo intorno senza pretese. Una sciarpa mi protegge dall’estate, una bustina di Oki dagli strascichi dell’inverno. Cammino ed è buio. Cammino a passi lenti e indovinando una direzione. Cammino senza una molotov in tasca. Un anello mi mette in guardia sul passato, un po’ di Gentalyn sul futuro. Cammino e forse mi fermerò a guardare cosa c’è dietro. Cammino e tasto il terreno battendo forte i piedi.

Coerenza tienimi a bada,
Coerenza punzecchiami ancora.

Drop this, blow on tears.

Vorrei che adesso ti fermassi, e guardassi bene i miei occhi. Cosa vedi?

Sono capillari, iridi di cioccolato, pupille timide ai raggi del sole, disgusto, il velo di Morfeo, cornetti croccanti, amarezza, il filo d’acciaio freddo e tagliente su cui scivolare lentamente in equilibrio, un profondo senso d’ingiustizia, alienazione, carpire i piccoli moti dell’animo e le piccole doglie in petto, un sorriso che spezza le redini del cuore.

Forse eri dove il sogno non era.