Ad un certo punto decisi di arrendermi.
Sì, insomma.
Arrendermi.
Basta con queste puttanate.
Ripresi a studiare. Studiare mi piaceva da morire. Trovavo estremamente interessante tutto quello che studiavo. Anche quello che non capivo. Era tutto permeato da una strana aura di autorità, l’autorità della sapienza, quella che ti accarezza solo se sei docile. Ed io fui così docile. Tanto da meritare 110 e lode.
Feci un master e altri corsi di perfezionamento. Poi, ad un certo punto, decisi che non avevo più nulla da imparare. Allora smisi di studiare, e presi un cane. Lo addestrai per bene. Finora i cani che avevo erano pericolosamente liberi, e pericolosamente correvano qua e là facendosi del male (perché la libertà fa male, l’avevo imparato). Questo cane invece mi seguiva senza guinzaglio, sempre affettuoso e docile. Non so se per paura o per pietà.
Tornai dal mio datore di lavoro con i miei attestati di docile condotta. Lui si fece una grassa risata, e mi disse che con quel pezzo di carta non andavo da nessuna parte, e se volevo tornare dovevo continuare a fare il lavoro di sempre, o altrimenti me ne dovevo andare da qualche altra parte. Continuai a fare il lavoro di sempre, lo trovavo così adorabilmente rassicurante. Il mio datore di lavoro non credeva ai suoi occhi, ero così bravo e docile che decise di accarezzarmi con l’autorità di una splendida carriera, e docilmente arrivai ad uno stipendio che mi permetteva di comprare tutto ciò che volevo.
E compravo davvero tutto ciò che volevo. Comprai una BMW come avevo sempre sognato, e correvo su e giù per l’Europa in barba a tutti i Tutor. Quando non mi andava di rodere punti mi limitavo a saltare qua e là con l’aereo. Il jet lag è fastidioso da morire. Oppure tornavo a casa e mi accoglievano luci soffuse ed un impianto stereo grandioso, pronto a suonare alla perfezione A night in Tunisia, ma che piuttosto preferivo usare per ascoltar meglio i rumori di fondo di un qualche reality show.
Non fumavo più, non bevevo più, la mia piccola ossessione era la continua ricerca di cibi assolutamente sani. Andavo a dormire alle undici in punto, cascasse il mondo, e mi svegliavo alle sette in punto, cascasse il mondo. La mia vita era un continuo ciclo regolare di sonno-veglia-lavoro-tempo libero. Nel tempo libero mi concedevo a volte una docile cena con i miei nuovi docili amici. Non ho più voluto una compagna fissa, si sarebbe trattato di una sregolatezza semplicemente inammissibile.
Ero
perfettamente
allineato.
Inutile dirlo, era pura armonia.
Arrivai al termine della mia vita piuttosto presto, con un tumore alle ghiandole surrenali mal curato. Mi dicevano che era colpa dell’eccessivo stress, ma io non mi sentivo affatto stressato. Continuavo a non capire. Non capivo davvero. Era terribile vedere tutti i miei docili ritmi distrutti in un letto d’ospedale. Ma l’autorità dei medici era indiscutibile per un povero (docile) malato, perciò ad ogni fitta mi mordevo la lingua fino a svenire; qualcuno poi si ricordava di me e, prontamente, mi iniettava una dose di morfina per rendere me e il mio dolore quanto più docili possibile.
Il mio letto era a fianco di una finestra rivolta all’alba, con persiane grigie, come le pareti. Una mattina mi risvegliai con un fiore in mano. Non mi chiesi di chi fosse. Era il fiore più bello che avessi mai visto. Eppure era un fiore qualunque.
Improvvisamente mi resi conto che per anni avevo smesso di guardar fiori, cielo, pioggia, nuvole, sorrisi e gonne lunghe. Avevo smesso di guardare oltre, al di là, al di sopra. Guardavo solo dritto. Dritto. Con la testa docile, pronta a farsi accarezzare dall’autorità dei tuoi genitori che volevano il miglior futuro possibile per il proprio figlio, e che io ho voluto sempre rispettare per non deluderli. Non so se per paura o per pietà.
Quindi scoppiai a piangere.
E, piangendo, morii.