Che. Ché.

Una volta vomitai incomprensioni e giudizi, sale e passione, turbini roboanti di pensieri e tentennamenti inscatolati in biglie pesanti come il piombo. Ne raccolsi un po’ in una bottiglia e la gettai in mare. La spiaggia era umida. Il sole del tramonto, di fronte a me, arrossava le nubi ancora compatte.

La vidi allontanarsi, nuda e grave, verso un’isola che si profilava timidamente all’orizzonte, per poi deviare sulla sinistra. Il mare ondeggiava dolcemente, avvolgendosi a volte in labili pieghe, sensuali come un fianco carnoso in torsione. Tornai a casa e mi addormentai sul letto nuovo.

La mia bottiglia arrivò su una spiaggia che non vedrò mai, raccolta da un ragazzino che, preso da sconforto, la rigettò poco più lontano. Scorrendo ancora attraverso il mare, giunse alla sponda opposta, trascinata da una tonnara, tenuta stretta da una tartaruga rassegnata a morire. I pescatori presero la tartaruga sanguinante e la bottiglia e buttarono entrambe di nuovo in mare, lontano dalla mattanza.

La tartaruga morì sul fondo pochi metri più avanti, diventando poi preda di turisti divertiti dal suo carapace. La bottiglia invece continuò a scorrere, lenta, fino all’estuario di un fiume che univa due popoli divisi da tempo. Una bambina la raccolse, ma poco dopo sua madre la convinse a tornare piuttosto ai suoi panni. Se la portò dietro, incuriosita, ma dopo del tempo la gettò via, annoiata.

La bottiglia finì in una discarica, e lì restò a lungo, finché un’inondazione la trascinò rapidamente verso quello stesso fiume dove si era fermata, e da lì riprese il suo percorso.

Quando la bottiglia, anni e anni dopo, tornò a me, la trovai completamente diversa. Qualcuno l’aveva svuotata e, al suo posto, l’aveva riempita con acqua di sorgente.

Non saprò mai chi sia stato, ma ricordo che la bevvi tutta d’un sorso.
Poi tornai a casa, e mi addormentai sul letto nuovo.

Difforme, informe.

Archita era solito prenderci in giro, metterci in discussione, a volte persino manipolarci, e in qualche modo sfruttarci, affinché giungessimo insieme alla Verità.

Ma la Verità, in verità, è menzogna. Come l’eterno, l’infinito, la follia, il destino e il caso. È il coccige da cui si dipanano peristalsi ed epistalsi, quando a volte la testa si poggia stancamente sulla spalla, scivolando lentamente, incastrandosi perfettamente, tra capo e collo, e per un istante pare brillare un vago riflesso di perfezione.

In qualche piccola notte sembra di veder davvero branchie affannarsi.

Istinto di auto-conversazione.

Nel Giorno del Bene e del Male mi accorgo solo ora che è il Giorno del Bene e del Male. Nel Giorno del Bene e del Male prendo la moto e mi metto in moto, facendo attenzione a sorpassare da sinistra. Nel Giorno del Bene e del Male penso che, dopotutto, non c’è molto da fare che sorpassare da destra in certi punti, anche se questo non giustifica i miei inconsci tentativi di ribadire un Altro Giorno del Bene e del Male (più Bene che Male). Nel Giorno del Bene e del Male, senza accorgersene, si sviluppano piccoli e grandi spartitraffici verso innumerevoli direzioni. Si prende uno svincolo differente e si nota soltanto più tardi la differenza. Nel Giorno del Bene e del Male si fanno anche cose divertenti, perché nel Giorno del Bene e del Male, dopotutto, tutto scorre tutt’ora un po’ come sempre.

Nel Giorno del Bene e del Male quasi non mi accorgevo del Giorno del Bene e del Male.

GM LID CQ DE DX FER NIL.

Mi volto a ore 4.5 e faccio un passo.
Poi ancora, ancora e ancora una volta.

Sono lontano migliaia e migliaia di yoctometri da qui.

Stacco il contatore e accendo il frigo vuoto,
prendo una coperta e mi ci addormento sopra.

Chiudo a doppia mandata la porta rotta,
fumo decine di sigarette bucate,
premo il pulsante per aprire il cancello ostruito,
accendo la macchina a corto di benzina,
mi disseto alla sorgente secca,
mangio sabbia che vola via.

Mi schianto contro il guard-rail in progetto.

Το πρόβλημα είναι βίος.

Cammino con la testa rincantucciata nel mio cappuccio, e sorrido alla vecchia che sbraita contro chissà chi laggiù. Calpesto la tetta di una signorina in bikini su un catalogo abbandonato sull’asfalto e chiedo scusa, passo avanti, arriva una medusa, guardo e passo oltre, scorgo in lontananza un fiore di loto che muore d’indifferenza, e una collina nera bagnata di pianto. La luce cambia i suoi colori, e il cuore batte tanto da far girar la testa. All’improvviso: immoto; subito: ripresa.

Mentre studio possibili cause e possibili effetti spero che sia proprio quel soffio a renderci vivi.

Valutazioni psicosomatiche.

Ad un certo punto decisi di arrendermi.

Sì, insomma.
Arrendermi.
Basta con queste puttanate.

Ripresi a studiare. Studiare mi piaceva da morire. Trovavo estremamente interessante tutto quello che studiavo. Anche quello che non capivo. Era tutto permeato da una strana aura di autorità, l’autorità della sapienza, quella che ti accarezza solo se sei docile. Ed io fui così docile. Tanto da meritare 110 e lode.

Feci un master e altri corsi di perfezionamento. Poi, ad un certo punto, decisi che non avevo più nulla da imparare. Allora smisi di studiare, e presi un cane. Lo addestrai per bene. Finora i cani che avevo erano pericolosamente liberi, e pericolosamente correvano qua e là facendosi del male (perché la libertà fa male, l’avevo imparato). Questo cane invece mi seguiva senza guinzaglio, sempre affettuoso e docile. Non so se per paura o per pietà.

Tornai dal mio datore di lavoro con i miei attestati di docile condotta. Lui si fece una grassa risata, e mi disse che con quel pezzo di carta non andavo da nessuna parte, e se volevo tornare dovevo continuare a fare il lavoro di sempre, o altrimenti me ne dovevo andare da qualche altra parte. Continuai a fare il lavoro di sempre, lo trovavo così adorabilmente rassicurante. Il mio datore di lavoro non credeva ai suoi occhi, ero così bravo e docile che decise di accarezzarmi con l’autorità di una splendida carriera, e docilmente arrivai ad uno stipendio che mi permetteva di comprare tutto ciò che volevo.

E compravo davvero tutto ciò che volevo. Comprai una BMW come avevo sempre sognato, e correvo su e giù per l’Europa in barba a tutti i Tutor. Quando non mi andava di rodere punti mi limitavo a saltare qua e là con l’aereo. Il jet lag è fastidioso da morire. Oppure tornavo a casa e mi accoglievano luci soffuse ed un impianto stereo grandioso, pronto a suonare alla perfezione A night in Tunisia, ma che piuttosto preferivo usare per ascoltar meglio i rumori di fondo di un qualche reality show.

Non fumavo più, non bevevo più, la mia piccola ossessione era la continua ricerca di cibi assolutamente sani. Andavo a dormire alle undici in punto, cascasse il mondo, e mi svegliavo alle sette in punto, cascasse il mondo. La mia vita era un continuo ciclo regolare di sonno-veglia-lavoro-tempo libero. Nel tempo libero mi concedevo a volte una docile cena con i miei nuovi docili amici. Non ho più voluto una compagna fissa, si sarebbe trattato di una sregolatezza semplicemente inammissibile.

Ero
perfettamente
allineato.

Inutile dirlo, era pura armonia.

Arrivai al termine della mia vita piuttosto presto, con un tumore alle ghiandole surrenali mal curato. Mi dicevano che era colpa dell’eccessivo stress, ma io non mi sentivo affatto stressato. Continuavo a non capire. Non capivo davvero. Era terribile vedere tutti i miei docili ritmi distrutti in un letto d’ospedale. Ma l’autorità dei medici era indiscutibile per un povero (docile) malato, perciò ad ogni fitta mi mordevo la lingua fino a svenire; qualcuno poi si ricordava di me e, prontamente, mi iniettava una dose di morfina per rendere me e il mio dolore quanto più docili possibile.

Il mio letto era a fianco di una finestra rivolta all’alba, con persiane grigie, come le pareti. Una mattina mi risvegliai con un fiore in mano. Non mi chiesi di chi fosse. Era il fiore più bello che avessi mai visto. Eppure era un fiore qualunque.

Improvvisamente mi resi conto che per anni avevo smesso di guardar fiori, cielo, pioggia, nuvole, sorrisi e gonne lunghe. Avevo smesso di guardare oltre, al di là, al di sopra. Guardavo solo dritto. Dritto. Con la testa docile, pronta a farsi accarezzare dall’autorità dei tuoi genitori che volevano il miglior futuro possibile per il proprio figlio, e che io ho voluto sempre rispettare per non deluderli. Non so se per paura o per pietà.

Quindi scoppiai a piangere.
E, piangendo, morii.