Finché avrà un’ombra di sobrietà.

Ci ritrovammo tutti ai piedi dello stesso albero.
Dovevamo urlare.

Una luce insolita illuminava debolmente il tronco larghissimo, tutto intorno affogava nell’infinito. Dovevamo entrare. Vanghe, calde per l’attrito, si raccoglievano ai bordi della buca. Una persona per volta. Dovevamo entrare. Raccogliersi dentro una buca, per garantirsi il senso di sollievo necessario. Dovevamo entrare. Alza lo sguardo. Notte senza luna, infinite stelle. Eravamo lì perché dovevamo urlare. Dovevamo entrare. Dovevamo urlare. Ognuno ha qualcosa da dire alla luna assente, le stelle faranno forse degne ambasciate.

Dobbiamo cominciare.

Iniziò il primo. A pancia in su, la nuca poggiata sul bordo del fosso, braccia incrociate a stringersi forte le spalle, straziò il cuore con un urlo inaspettato, potente, corroso dalla necessità. Si riusciva quasi a toccare il suo cuore, vederlo vagabondare inquieto tra monadi, castelli e fondali marini, guardarti con occhi dolci che ti implorano di stringerlo forte a sé, causeresti la mia fine ma non importa, amore mio, stringilo forte contro di te, il mio piccolo cuore è anche il tuo ora, riesci a sentirlo pulsare insieme al tuo? Un unico fortissimo battito che squarcia il corpo fin nelle viscere.

Poi entrò il secondo. Ancora dritto in piedi, non ebbe il coraggio di guardare oltre le ultime fronde dell’albero. Scoppiò a piangere. Piangeva a testa bassa. Ogni singhiozzo era un sussulto che ci scuoteva come frustate. Cantava il suo piccolo mondo, protetto da quello reale da immense fortezze. Un giorno, però, qualcuno fece una piccola breccia. Da allora, col suo piccolo cuore affaticato, corre qui e là, per ovviare ad un qualche crollo, che ne causa un altro, e poi un altro ancora. O, a volte, aspetta che tutto si distrugga per poi, con pazienza, ricominciare.

Arrivò il terzo. Si muoveva lentamente, aspettando qualcosa. Guardò le stelle attentamente, quasi le volesse contare una ad una. Ad un certo punto ne trovò una. Non era la più bella, né la più grande, né la più piccola né la meno luminosa. Non faceva parte di nessuna costellazione. Lì, sola, indistinguibile nel marasma di luci tutte uguali. La guardò e stirò la braccia fino a volerla raggiungere. Senza poterla raggiungere. Sì arrampicò fin sulla cima dell’albero per esserle più vicino. Senza poterle esser vicino. Quindi, deluso dal fallimento, si lasciò cadere.

Il quarto lo guardò con sorriso benevolo. Di chi sa già la data del prossimo incontro. Ma, dopo qualche minuto, il terzo si riprese. Era caduto sulla terra morbida e umida. Il quarto lo baciò dolcemente, lo aiutò a rialzarsi, e insieme andarono via, lasciando tutti gli altri in lacrime, perdendosi poco più in là, nell’infinito.

4 thoughts on “Finché avrà un’ombra di sobrietà.

  1. Il quinto si era mantenuto distante. Gli altri non sapevano nemmeno che ci fosse un quinto. Si era goduto i loro sforzi mentre scavavano, l’urlo del primo, il pianto del secondo, la caduta del terzo e la (com)passione del quarto. Aveva respirato a pieni polmoni l’aria della notte. Si era raggomitolato, assaporando la dolcezza del vedere il terzo e il quarto allontanarsi mano nella mano. E aveva atteso l’aurora, la sua ultima aurora. Appena il primo spicchio di sole fu visibile al di là dell’orizzonte, prese la pistola che teneva nei pantaloni e mirò alla tempia, la sua tempia. Lo sparo scosse il sonno angosciato del primo e del secondo, che, svegliandosi, tentava di ripulire il viso sporco di fango e lacrime. Si guardarono intorno… e non videro altro che loro stessi. Andarono via confusi e inconsapevolmente consapevoli. Il quinto giaceva poco distante, nascosto dai cespugli di more.

    (scusami l’intromissione)

    Vlr

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