Galleggio nell’aria,
rivedo la vita.
[RestArt, RestArtarant]
Siamo nella merda.
Però rido.
E piango.
Ma soprattutto sorrido.
Continuamente.
Sì, è vero, dovrei smetterla di fare il riottoso nei confronti del Natale.
Che poi, diciamocelo, non è che lo odio.
Anzi, fintanto che lo adorano gli altri lo adoro un po’ anch’io.
Del resto è un’occasione da sfruttare pienamente: i regali, cenoni in cui lanciarsi avidamente per arraffar cibarie (più o meno) prelibate, alcolici messi candidamente a disposizione da Trimalcioni dell’ultim’ora, Christmas Card per rompere i maroni ai soliti noti per qualsiasi cosa tranne che le dovute catene di Sant’Antonio e i dovuti auguri, e altro ancora.
Però.
Se oggi è l’unico giorno a disposizione per potermi muovere liberamente.
Se oggi sembra la giornata ideale per far compere girovagando tra i negozi, con quel cielo uggioso che ti invita necessariamente a ripararti dalla la potenziale tempesta, e inevitabilmente guardar la merce esposta tra un "uuh" e un "ooh", e poi sgusciar via al primo cenno del commesso.
Se oggi ti trovi a non poter far null’altro, anche volendo per distrarsi un po’ dal senso di colpa di te che stasera ti darai agli allegri bagordi insieme ad altri ben noti beoni, aggrappandosi al ventilatore schizzando spumante contro le pareti (spero che D. non scopra mai questo blog), mentre quella povera buonanima si contorcerà nel letto insonne, preda di stati febbrili-comatosi (ok, mi sa che sto per provocare una strage).
Tu, negoziante, perché non segui la mia logica ferrea e non apri il 26?
Dico, hai aperto il 24, hai aperto pure il 25… il pranzo del 26 che lo fai a fare?
Metti che c’è uno (a caso) che il 24 e il 25 ha avuto ben altro da fare che comprare i regali, e ora si è reso conto che tutti gli altri l’han fatto, e per sgusciar via dalla figura di merda contava su un blando "no dài, scusami se ti ho portato solo ora il regalo, ci avevo già pensato la settimana scorsa ma ho avuto un sacco di cose da fare e non ho fatto in tempo a portartelo".
Mi metti evidentemente in una situazione difficile.
Negoziante, preparati ad un assalto all’alba di domani.
Vabbè, un po’ più tardi dell’alba.
Ma comunque preparati.
Se la tesi è l’istinto e l’antitesi è la ragione, la sintesi è l’intuizione che dona le sue motivazioni a posteriori. Il gusto acido di un motto salace nato ormai già vecchio, il brivido dell’empirìa che turba il sonno notturno, il sapore dolce che si trasforma in alitosi da tartaro.
Il vino che attecchisce alle labbra secche e non va più via, quando pensi che molto probabilmente non è quella la tua strada. Non sarà mai quello che sarai. Ma chissà poi cosa sarai mai, se prosegui per triangolazioni pur non ricordando mai il θ giusto da calcolare. Un lungo procedere a tentoni, sempre vittima del timore costante di non capir subito quando è necessario corregger la rotta.
Un po’ come giocare a biliardo. Un gioco affascinante, davvero. Varianti infinite per una traiettoria che, diciamocela, quando è giusta lo è solo per culo. A volte basterebbe una pulsazione del cuore fuori sincrono per scombinare tutto. Ci ho provato solo tre volte in tutta la mia vita. Ma una volta mi dissero che ero troppo piccolo. Un’altra volta vidi sbocciare un amore destinato all’irreparabile. La volta dopo era il solito disastroso trascinarsi.
Spensierare; poter giocare.
Disco di ghiaccio secco, sospinto da dolce alito di vita.
Pattina libero lungo la traiettoria, sorvola le asperità del suolo.
Ignora e passa oltre ogni insetto sulla sua traiettoria.
È la sua aria a tenerlo a una spanna da terra.
È la sua aria a decidere quando fermarsi.
Mi costringo a fermarmi.
Forse, cambiando alcuni elementi nell’ordine solito delle cose… Mi capita spesso di far così, per non restare… restare… per non restare. Costretto a cambiare [continuamente] abitudini. Costretto da chi? Mi costringo a fermarmi perché costringo a fermare unaltromè in corsa.
Forse, cambiando alcuni elementi nell’ordine solito delle cose potrebbe cambiare… Ma quest’ordine dov’è? Son così emozionanti queste roccaforti, costruite con metodo e pazienza, quando crollano al primo imprevisto. E l’imprevisto è la vertigine sempre più forte. Come quando sono ad un passo dal cogliere il senso vero di un qualcosa. Il senso profondo. Finora erano più che altro assiomi, assunti freddamente come pillole, e sembrava andar tutto bene. Ora è senso profondo. Intuizione del. Ma c’è una frase di cui non riesco ancora ad intuire il senso profondo. Provo a scomporla in due parti distinte, ma le difficoltà raddoppiano anzichenò: «quando si muore, si muore soli». Ecco, di nuovo una vertigine.
Forse, cambiando alcuni elementi nell’ordine solito delle cose potrebbe cambiare anche la solita domenica. La domenica. Che è come una piccola estate. Anche quando fuori non ci sono gradi e la neve ormai è diventata ghiaccio. Anche quando decido di lasciarmi sopraffare dalle intemperie e stravolgo metà della solita giornata.
Eppure ieri non era così.
Piuttosto era ::= rischiare [con] ((una | la) vita){2,2}; [?]
È la fottuta sensazione di aver calpestato un feto sotto la neve.
Resisterà, ma forse crescerà deforme.
Colpa mia, non d’Iddìo.
There’ll be something missing.
Now that you found it, it’s gone.
Now that you feel it, you don’t.
It’s gone forever.[…]
You’ll go to Hell, for what your dirty mind is thinking.
(Radiohead, Nude, In Rainbows, 2007)
Ero un bambino.
C’era una luce così strana, riflessa su un interminabile manto bianco. Una volta ero su un aereo che aveva deciso di stagliarsi oltre le nuvole basse. Viste da lassù non son più grigie e tristi, sono una vallata bianca, il paradiso. Il piccolo paradiso ora era sceso qui, di fronte a casa mia. Allora ne ho preso un piccolo pezzo, soffice, e l’ho lanciato in aria. Si è sfaldato in mille piccolissimi veli, che si sono uniti a quelle altre centinaia di piccolissimi veli che esitavano a poggiarsi su di me o scivolar via.
Poi ho preso un altro pezzo e l’ho stretto nella mano. Forte. Morbido e gommoso fra le dita, tira un morso, mastica e sputa. E avrei continuato così, sentendo un leggero scrocchiare sotto i miei passi, buttandomi all’indietro per sprofondare come in quei prati d’erba soffice e altissima.
E poi sono andato.
E il bianco lasciava il posto a un marrone fangoso.
Che lasciava il posto all’asfalto ghiacciato.
E camminavo a tentoni, pestando forte, come se volessi impormi sul suolo; oppure, non appena potevo, mi rifugiavo nel rassicurante candore che restava, a sprazzi, un po’ ovunque. E continuavo a guardare, con un sorriso idiota, i rami che avrei presto scosso, i tetti delle auto su cui avrei impresso la mia mano, le scale su cui avrei poggiato il mio piede giusto per lasciare un’unica orma. Insieme a quella di altre centinaia di orme di umani, di cani, di gatti, di copertoni e tavoli. Sì, tavoli. Una piccola tavola mezza innevata sulla la quale mangiare un kebab fatto alla buona, e disperdere il tempo e il calore in una piacevole chiacchierata.
E poi andrà via.
E poi tornerà.
Perché ti ostini a riprovarci con quelle canzoni
a cui hai dato un coltello in mano
e l’ordine implicito di pugnalarti all’improvviso?
Riprendendo un certo discorso.
Per la prima volta una minoranza di questo gregge da quasi sessanta milioni di componenti ha dimostrato all’intero Paese che non è lo Stato a detenere il potere, bensì il Popolo.
No, detto così sembra una sciocchezza demagogica.
Allora immaginate un gruppo di persone che si occupa di un servizio chiave nell’economia internazionale e decide di protestare. Si ritrova contro i poteri forti che, in blocco, minacciano precettazioni, interventi armati, denunce per interruzione di pubblico servizio, richieste di risarcimento. Ma questo gruppo, forte della propria disperazione, prosegue. Ancor più incazzato. E sa che tutte queste minacce non servono assolutamente a niente, le fanno perché hanno paura. Hanno paura di dire a tutti: «sì, è vero, non siamo noi a detenere il potere, facciamo finta perché approfittiamo del fatto che siete una massa di imbecilli e credete che davvero non si possa fare altrimenti. Non è lo Stato, non è la Legge, sono gli Autotrasportatori».
Ma, ovvio, gli Autotrasportatori non sono di certo un potere.
[Sarebbe come mettere Ali G nel parlamento inglese.]
Il loro potere dura appena il tempo di uno sciopero compatto.
Ma uno sciopero compatto lo potrebbero fare anche, non so, gli operai metalmeccanici di tutt’Italia per evitare la solita ennesima morte bianca, l’ennesimo vermicello abbrustolito. Oppure, chissà, tutti gli operatori delle telecomunicazioni. Che differenza c’è? Sono meno vessati? Meno incazzosi? Forse se la spassano meglio di quei poveri sfigati dei camionisti?
Allora certe checche isteriche e certe altre vecchie fighette dovrebbero riflettere sulla loro assoluta incapacità sociale nel comprendere che il non poter mostrare il solito sfarzo natalizio in tavola, o il non poter fare la gita fuori porta per far guardare ai bimbi la neve, non è una maledizione mandata dal Signore Iddio, né dal Governo Ladro. Piuttosto è la dimostrazione che davvero, a volte, si potrebbe smuffire un po’ di vecchiume democratico. Senza rivoluzioni e senza sangue.
[Certo che molti hanno decisamente passato il segno.
Dovrebbero metterli a spostar chiesette, piuttosto.]
Di solito si inizia con una citazione.
Stéphane Mallarmé era un tipo di quelli che, tolti i baffoni che fan molto Maestro figo, aveva piuttosto l’aspetto di un tamarrone, con questa riga al centro dalle estremità riccioline. Non avresti dunque mai pensato che potesse dire una cosa come:
Nommer un objet, c’est supprimer les trois quarts de la jouissance du poème qui est faite de deviner peu à peu: le suggérer, voilà le rêve. C’est le parfait usage de ce mystère qui constitue le symbole: évoquer petit à petit un objet pour montrer un état d’âme, ou, inversement, choisir un objet et en dégager un état d’âme, par une série de déchiffrements.
Qual è il problema? Il problema è che le parole hanno perso la loro forza originaria. Le parole non sono più poche e potenti, sono sotterrate da immani quantità di significati, sfumature, plurivalenze. Ricorriamo a sinonimi e perifrasi per una velleità stilistica che non fa altro che rendere ancor più banale la loro efficacia. Frasi che una volta evocavano sensazioni ben precise ora non sono altro che frasi fatte, giri di parole da sfruttare per ogni buona figura. Ormai anche l’autoreferenzialità è diventata un mero esercizio di stile.
E l’amore. Ah, l’amour. Ma lasciamo perdere.
Allora ci trasformiamo in strani esseri che pensano di dire tutto ma, in realtà, per chi ci ascolta, non diciamo proprio niente. Pensiamo a qualcosa di originale ma incappiamo in questo ostacolo comunicativo e finiamo per convincerci noi stessi che in realtà non c’è nulla di nuovo. Magari abbiamo capito qualcosa di forte, davvero forte, ma non ci sono parole per esprimerlo. Che poi non è vero, le parole ci sono, e sono proprio quelle giuste, ma se le usassimo nessuno capirebbe.
Ecco, viviamo viziati da parole viziate.
Allora ti resta solo ricorrere ad una sorta di intento poetico. No, non fare poesia, intendo proprio avere in mente l’idea che ogni parola potrà essere fraintesa, ogni metafora giudicata seguendo i percorsi creati dall’esperienza individuale. Che è difficile capire univocamente, perché è difficile farsi capire. Tentare più vie, a volte ridondanti, per guidarti efficacemente verso l’interpretazione che più ti aggrada.
E finisci con l’oscuro, il criptico. Sopprimere una parola sotto un cumulo di frasi cineree, o altrimenti lasciar fluire le parole e godersi il piccolo spettacolo dell’incomprensione. Che a volte diventa un’entusiasmante gioco interpretativo.
Vi è capitato mai di rileggere un testo a distanza di anni e, finalmente, capirne il senso profondo?
Vi è capitato mai di rileggere un vostro testo a distanza di tempo e scoprire che aver scritto qualcosa di getto era stato in realtà il modo più efficace per mantenere quell’aura sospesa immobile, pronta per essere colta solo al momento opportuno?
C’è questo piccolo gomitolo, dai fili sottili. Lo giri e lo rigiri, lo lasci un attimo sul tavolo e il giorno dopo lo riprendi. Ti dici che, dannazione, ci sarà pure un inizio. E poi, una sera, bevendo un sorso di soffice [schiuma di] Weiße, ti accorgi che il bandolo è proprio lì. Proprio lì, ma eri così distratto da non accorgertene.
Ma ci pensa zio (bella zio!) a risolvere tutti i problemi. Degli altri. Perché è più semplice e non ti fa pensare ai propri. Ma forse mamma e papà non divorzieranno come tutti gli altri. È una piccola goccia lanciata contro un vetro, un’innocua bomba a grappolo che evapora via con poco.
E, piuttosto che questa foto, ne adorerei ben più un’altra, e un’altra ancora.
Piccolo passo senza bastone.
Piccola destinazione.
C’è un qualche fotogramma subliminale a sfuggirmi o, piuttosto tutta la trama? Separare le due istanze separa o raddoppia inutili farneticazioni? Inutili? Due istanze? C’è una trama?
Mi sento come il video che ho visto ieri. Ora sono qui; tempo un fotogramma e mi trovo improvvisamente dalla parte opposta. Poi al centro. Poi avanti. Poi dietro. E la mia figura si perde ben presto nella mischia di decine di me.
E oggi, mentre spiegavo che i miei (soggetto o oggetto dei?) giudizi sono troppo parziali per essere affidabili, chiudevo gli occhi e tentavo di progettare la lunga scalinata verso l’indeterminato.
Difficile.
Dei gradini sarebbero stabili, sì. Ma la salita difficoltosa.
Una rampa sarebbe agevole. Ma se cedessi scivolesti tristemente giù.
Alla fine del piccolo sogno c’era, tuttavia, una possibile soluzione.
Gradini con gli spigoli smussati.
Non una pausa.
Una fuga.