Un commerciante decise di aprire la sua attività. Ingenuo, ma coraggioso e ricco di buone speranze, si prodigò con tutto il cuore a far sì che il suo piccolo negozio desse i suoi frutti.
Un giorno due distinti signori si presentarono, comunicandogli che, per l’autorità conferitagli dal sovrano e ben noto Stato di fatto (parallelo e trasversale rispetto a quello di diritto), altresì detto Mafia, il mantenimento di quest’attività comportava il pagamento di una gabella.
Il giovane commerciante, ingenuo ma coraggioso, si ribellò e protestò. I due andarono via, ma il giorno dopo il commerciante trovò il negozio ridotto in cenere. Il caso venne archiviato come incendio doloso ad opera di ignoti.
Qualche giorno dopo aver ripreso faticosamente l’attività, altri due signori, piuttosto meno distinti dei primi, si presentarono con le stesse pretese. Questa volta il giovane cedette, e prese a pagare il pizzo.
Ma questa non è una tiritera sul pizzo.
Né sul sistema feudale che trova il suo corrispettivo moderno nella mafia.
Uno Stato esiste in quanto ognuno dei sudditi accetta il pactum auto-subiectionis. Chi non si ritrova in questo patto dev’essere isolato, o la sua dissidenza repressa con la forza, altrimenti lo Stato perde di efficacia.
Coloro che nascono generazioni e generazioni dopo la nascita di uno Stato, nascono già dotati di diritti e doveri. In realtà, molto più semplicemente, il nascituro porta già con sé il dovere di accettare il patto, ed eventualmente il diritto a rinunciarvi in seguito. Come il battesimo per i cattolici.
Come rinunciare al patto? Auto-esiliandosi verso uno altro stato con un altro patto. Ma se nessuno stato è rispondente alle proprie esigenze, o se più semplicemente non si accetta l’idea stessa di un patto di auto-sottomissione, che alternativa c’è?
Dal momento che, in buona sostanza, al mondo non esistono stati anarchici, una possibilità sarebbe auto-esiliarsi dal mondo stesso, in qualche modo. Un’altra possibilità sarebbe entrare nel sistema per riformarlo secondo le proprie esigenze, finendo però, magari, per creare un regime dittatoriale. L’ultima è, appunto, sottomettersi rassegnatamente alla forza bruta dello Stato, ossia sottomettersi, acquiescenti, al patto.
In parole povere: ciò che fa lo Stato è imprescindibilmente giusto fintanto che i sudditi non hanno la forza di contrastarne l’imposizione; di conseguenza (e, contemporaneamente, di causa) continuano ad accettare il patto che li mette in relazione. Riassumendo ulteriormente: ancora una volta il padrone è tale in quanto esiste un servo, e il servo esiste in quanto c’è un padrone.
A completamento di questo discorso, e per un mero excursus: le rivoluzioni avvengono, dunque, quando gran parte dei sudditi non accetta più il pactum auto-subiectionis. Questo in genere accade perché lo Stato comincia a vivere di vita propria, facendo credere normale e universalmente giusta l’imposizione della sua autorità, e di conseguenza ritenendo altrettanto normale e universalmente giusto modificare i termini del patto a proprio piacimento.
Quale diritto ha, dunque, in realtà lo Stato di intervenire in materia di moralità, toccando temi come eutanasia, aborto, consumo di stupefacenti o prostituzione? Perché, soprattutto nel momento in cui – escludendo aborto, delitti dolosi o colposi conseguenti ad uso di sostanze stupefacenti, nonché prostituzione coatta – questi temi riguardano il libero arbitrio e non ledono gli interessi e le libertà dell’altro, questa ingerenza ci appare come un’imposizione ingiustificata e, in alcuni punti, contraddittoria. Ci fanno credere che la politica debba abbracciare la moralità, e di conseguenza che sia giusto intervenire in questa materia. Un lato esempio è quello di uomini politici valutati non per le proprie doti politiche quanto per quelle morali. Storia vecchia, che puzza di retorica ciceroniana, ma che volendo affonda radici anche più remote nel tempo.
Quale diritto ha, invece, lo Stato quando impone a dei cittadini l’esilio, e nega loro un risarcimento economico una volta venuta a mancare l’imposizione? Il diritto ce l’ha, laddove il pactum auto-subiectionis non era conforme agli interessi dei cittadini espulsi. Lo Stato espressione di questo patto, anziché imporre la sua autorità tramite la repressione (ad esempio tagliando macabramente un po’ di teste all’Ancien Régime del 1789), ha preferito ripiegare sull’esclusione di componenti non rispondenti, un po’ come quando oggi si espelle un extracomunitario delittuoso. E, dal momento che la loro presenza era rappresentativa di un’autorità che aveva ancora un forte ascendente sulla popolazione, questo provvedimento transitorio è stato adeguato ad evitare che la loro presenza minasse, attivamente o passivamente, la stabilità della nuova autorità costituita.
Non ne discuterò oltre.