Nella contemplazione di ciò che è sublime, l’uomo si trova contemporaneamente di fronte a due condizioni. La prima è una sensazione dotata di una forza irresistibilmente attraente, sensazione disagevole che porta l’uomo a rendersi conto della sua impotenza di fronte a qualcosa che va oltre i propri limiti. La seconda è il piacere intrinseco di riuscire, tuttavia, a riconoscere questi limiti, e poter concepire quindi l’esistenza di un qualcosa di sovrastante. Un esempio per tutti è l’infinito. Impensabile concretamente, ma concepibile per astrazione. L’infinito produce sensazioni di sublime.
Volendo semplificare questa definizione ai minimi termini, sublime è ciò che produce sensazioni estreme opposte nello stesso istante, come impotenza-potenza, tristezza-felicità, rabbia-gioia, e così via.
Ebbene. In quel lungo, lunghissimo carnevale, durato un centinaio di canzoni, bastarono davvero poche cose a rendere il tutto sublime. Due fiori. Un sorriso. Un ricordo. Ogni attimo si espandeva e si contraeva a piacimento, come un telo steso distrattamente sul tavolo, che puoi raggrinzire qui e stendere lì, scorrendo il dito lungo la diagonale, senza farlo mai tornare indietro.
E infine tutto scivolò via, delicatamente, fra strade rannuvolate da gente d’ogni dove.
O nel buio di una notte che cerca di annunciare un giorno senza più pioggia.
certo che però è difficile spiegare a chi ti prende per un sottone dirgli: “no, è che trovo del sublime in ogni cosa che vedo”.