Ambisco al medesimo risultato.
Per ulteriori informazioni: http://it.wikipedia.org/wiki/Beatboxing
Non vi conviene contattarmi su MSN in questi giorni, potrei riempirvi di link a video improponibili (ci sono martiri che possono testimoniarlo).
Ambisco al medesimo risultato.
Per ulteriori informazioni: http://it.wikipedia.org/wiki/Beatboxing
Non vi conviene contattarmi su MSN in questi giorni, potrei riempirvi di link a video improponibili (ci sono martiri che possono testimoniarlo).
Le persone cambiano. Tu in peggio. E il fatto di aver sempre odiato la prostituzione virtuale si sta trasformando in una lusinghiera catena di incontri. In cui può riuscir chiunque, persino io.
Ma io, e te lo dico con una convinzione che cresce man mano che capisco, sono meglio di te. Io preferisco amare, non innamorarmi. Io preferisco fare l’amore, non scopare. Io preferisco scrivere, non leggere. Io preferisco parlare, non provarci o sentir lusinghe. Io preferisco suonare, non ascoltare musica senza convinzione. Io preferisco stare con poche buone persone, non con chi capita. Io preferisco sputar fuori il veleno, non tenermelo dentro. Io preferisco vivere, non sopravvivere.
E, stai pur certa, presto te ne andrai. Sarai lontana. Lontana. E non tornerai mai più. E quando ti guarderò non mi provocherai più rabbia né dolore. Mi farai ridere, piuttosto. Mi farà ridere l’insulsa vita che ti circonda. Mi farà ridere la tua ricerca di apprezzamenti. Mi farà ridere immaginare le persone tristi con cui te la intenderai (similis cum similibus, no?), e quelli che ti vorranno bene e ti staranno appresso quel tanto che basta per guadagnarsi il premio della tua bocca.
Mi farà ridere tutto ciò che ti riguarda. Ma, soprattutto, il tuo stupido ostentare quella specie di normalità, e quell’auto-convincerti che così vada bene.
E forse ti ringrazierò persino.
Perché allieterai il mio spirito.
E il mio ego.
Ho fatto tardi. Mannò, sei in tempo; anzi, hai anche il tempo per una birra. Ah ma, hai visto?, c’è anche lui. E guarda, c’è anche… Oh, che bello, e lì? E… ah no, che strazio, quel parassita. Ehi, ma lì c’è…
Birra. Ovunque. Parole, frasi intere da pescare nel nuvolone di pensieri che in troppi anni hai sopito. E com’era bello vedere tutta questa inspiegabile energia, sembrava in eccesso. Ah, ma te ne do un po’ se vuoi. Mah, non so, oggi sto già un po’ carico di mio, pensa che addirittura ho rischiato di fare un… No, dai, davvero, io trabocco; tò. Ma no dài. Prendi ho detto. Essì, ma adesso te la sorbisci tu tutta quest’iperattività. E vabbè poi si pensa. Ma basta che domani me lo ridica. E te lo ridico, va. Ecco bravo.
Nel frattempo tre geni sprigionavano ancora altra energia.
Basta, vi prego!
Posate quella chitarra acustica,
tagliate quel delay,
acquietate quella voce!
Basta, vi prego!
Non potrei resistervi.
E invece no. Non basta.
Mentre ti bruci la tempia con una sigaretta maldestra, la distrazione ti sta sciogliendo.
E invece no. Non va bene.
Ti devo far ricordare ancora un paio di cosette.
Dimmi, dimmi, dimmi:
com’è stato masturbarti col mio pene?
Come per me una sega tra le tue gambe?
Si, conosco questa solitudine,
e gli esercizi di eleganza delle nostre articolazioni.
Serve, sì, serve l’afa di una notte nuda,
per far evaporare la noia attraverso una sigaretta,
che non si spegne mai, non si spegne mai…(Marta sui Tubi, Post)
Ma dura quanto il ciclo di un ventilatore stanco, questa spinta al limitare. Perché hai ancora un piede appena poggiato, sì, ma ora l’altro è incatenato. Certo, non è il tuo equilibrio naturale. Ti ostacola. Ti irrita. Ma ci stai prendendo gusto, vero?
E allora andiamo, ti spiego come scoprire ciò che ti è già noto, ignorare l’ignoto. Ti spiego il perché del sadomaso e dei mini-cocktail lunatici (come il suo autore). Ti spiego come non tornare indietro, per oltrepassare quella stupida soglia.
No, spiegherai dopo.
Ora devo specchiarmi.
Deve smetterla di fare così caldo. Devo smetterla di guardare la vita scorrere in modo così incosciente (indecente) sotto il balcone sospeso sul vuoto. Sospeso lungo la linea retta, traiettoria di un uovo-proiettile sparato verso il luogo in cui non vuoi essere né oggi, né domani.
E in quell’ammasso informe di mani così distrattamente indaffarate nel salutarti ritrovi le conseguenze di ciò che sei stato. Di ciò che sei. Inerme robboso in balia di onde sotterranee. E vorresti nasconderti dal reggaeton e dal punk ’70, vorresti tornare ad una chitarra che non suonerai, o un libro che non leggerai.
O ad una penna stanca di scrivere.
O ad un clacson irritato.
Nottata calda e nostalgica. Come un tempo. Mai come un tempo. Sul balcone, caraffa di Heineken semi-surgelata. In attesa di un treno. O di un meteorite che si abbatta sulla carrozza motrice (ah, le cause di forza maggiore). Prendo una penna. Scriviamo! Non mi va di scrivere. Vabbè, io comincio, poi vedi te. Scrivo. Scrivo. Scrivo. Vediamo. È inutile che cerchi di leggere, ho scritto sul ginocchio, non ci capisce una mazza. Massì, tu intanto leggiti questo. Sento movimenti inconsulti della penna sul foglio. Ecco. Ma hai disegnato? Essì. Ah ok, allora poi gli do’ una ramazzata di scanner. Essì. Ah ok. Mi piace, sai? Riassume.
(Picture: hand made by fooorzaaa)
Mi ricordo di un cucciolo.
In una gabbia di cristallo. Le stagioni passavano, per lui erano indifferenti. Sempre piccolo e atrofico. Tremava di freddo, eppure lo baciava il sole più caldo. Sguardo contrito. Improvvisamente si trasformava in un’espressione che vomitava odio e rancore senza motivo.
La sua piccola prigione, trasparente e impenetrabile. Il suo spazio vitale. Aveva sempre di che mangiare, ma non mangiava. Aveva di che dissetarsi, ma il suo muso era sempre rinsecchito. Eppure viveva, perché era il suo ostinato tenersi stretto contro le pareti a dargli vita. Probabilmente, se qualcuno mai fosse riuscito a liberarlo, ne sarebbe morto. Guizzava rapidamente, per questo terrore, al lato opposto di chiunque tentasse di avvicinarsi.
Eppure i suoi occhi volevano parlare. Urlare. Rabbia, delusione, errori, senso di vuoto, di abbandono. Non certo solitudine: qualsiasi passante si prodigava puntualmente nel tenergli compagnia. Per rompere quel muro di vetro, piccola enorme distanza, entro cinque minuti.
Uno di questi fui io.
Improvvisamente ebbi la fortissima impressione di esser riuscita ad entrare in quella gabbia. Lo presi in grembo, lo accarezzai, lo strinsi forte a me, con tutto l’amore incondizionato che potessi offrirgli. Si rintanò, ansioso, fra gli anfratti del mio abbraccio, in cerca di quel calore che desiderava così tanto. Sarebbe anche morto in quello stesso momento, pur di congelare quella gioia in un istante infinito.
Invece la morte congelò le sue sofferenze. L’impressione finì ben presto, vidi in realtà il suo sguardo atterrito. Ringhiando, mi scrutava dalla parete opposta. Scappai. E ripassai pochissime altre volte: non vederlo poteva farmi meno male, o illudermi che ora potesse star bene. Ma l’ultima volta scoprii che aveva deciso di non poggiarsi più ad alcuna parete. Né mangiare. Né bere.
Impenetrabile gabbia funeraria.
Che strano.
Posso decidere di smettere di mangiare.
Di fumare come un forsennato.
Di bere (sento mormorii di disapprovazione).
Di scrivere, parlare, guardare.
Posso decidere di pensare a questo o quello.
Di suonare il basso piuttosto che fare il beatbox in delay.
Di partire o restare.
Di uscire o fissare il monitor rigirandomi i pollici.
Persino di morire. O, più semplicemente, sputare in faccia alla fortuna, correndo a 140 col freno che potrebbe abbandonarmi da un momento all’altro, perché… ebbene sì, the Scooter Boy, anche in versione automobilistica, resta sempre e comunque un amante del rischio (leggasi cazzone).
E posso decidere di fare tante e tante altre cose. Forse quasi tutto.
Però tutto questo è davvero niente, in confronto a quello che non riesco a decidermi di fare.
Ed è come la sensazione di conoscere una persona,
ma non volersi poggiare a nessun ricordo.
Conocer la desconocida.
Εμπαίγμα.
Se non fosse per quel maledetto scanner ora ci sarebbe un’altro post.
Altro-paio-di-mani, perdonami e porta pazienza. Che tanto di pazienza ne hai.
Pour faire le portrait d’un albatros.
Nella terra di un Rudy sovrosannato si trincea il baluardo di un’estate che si ostina a non voler morire. Un’estate che cammina, lenta come la processione di un santo, incosciente come il normale, col suo seguito svolazzante di vanità. A volte cerco di trattenerne qualcosa per la coda, ma ben presto scivola via come se fosse d’aria.
Ma certamente non ci si sta con le mani in mano. Anzi, ci si cerca di organizzare a piccole dosi, nell’attesa che, come tutte le cose, anche questa finisca. Per poter dire, finalmente, di essersela lasciata alle spalle.
Medusa pietrifica.
Il satiro sbriciola.
Il vento spazza via.
Il mare torbido lava.
Il rum purifica.
Piccola catena di smontaggio per un piccolo fuggitivo. Per fare a pezzi quei cristalli di zucchero (bada bene, non di miele), che inevitabilmente rotolano e, come una palla di neve in un cartone animato, diventano sempre più grandi, sempre più compatti.
Arriverà presto l’inverno delle piccole vere gocce emozionali?
Dopotutto hai sempre goduto di ottima salute.
Sarà per questo che, l’unica volta in cui ti sei fatto male sul serio, hai deciso di provvedere da te?
Scoppia.
Piantistericarisata.
Altro che Red Bull.
Okay baby.
Davvero.
Anzi, per coronare l’occasione piazzo pure la faccina. Tò:
(Oh, però son carucce ‘ste faccine ^^)
Spegne la sua sigarette con cura, finché anche l’ultima minima porzione smette di bruciare. Ci vuole calma e determinazione, per non far continuare a soffrire questa piccola forma di vita.
Poi fisso nel vuoto, sguardo immobile, tempesta nell’animo.
D’improvviso s’illumina, volge la sua attenzione ai chiacchiericci di due conoscenti seduti alla sua destra. Ostenta interesse, sorriso largo, pensieri felici, empatia.
Cristallo di neve.
Poi un’altro ancora.
Si affaccia al parapetto e osserva.
Vuoto pieno di vuoto.
Gente che si affretta in ogni direzione.
Dove mi trovo?
Dove sei?
M’hai detto "ti amo", ti dissi "aspetta".
Stavo per dirti "eccomi", e tu m’hai detto "vattene".(François Truffaut, Jules e Jim, France 1961)
Ma vaffanculo.
A tutti i Luna Park, a Parigi, a Phantastica, alle luci soffuse, all’istinto di cercare e il terrore di trovare, alle attese spossanti e altre ben più attese spasmodiche da stand-by, a personaggi inutili che si piazzano in linea d’aria verso lo schermo nel momento più sbagliato, a CD di dubbio gusto messi in sottofondo nel momento ancor più sbagliato, alle curve da mal d’auto, alle batterie scariche e i vigili cercavetro.
Se non fosse per.
La Crest.
Le attenzioni a gratis.
FatBoy Slim.
Sogni così dolci.
Click.
[la mia testa è un focolaio di sovversivi]